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EST NELL'OVEST

    

EST NELL'OVEST




Normandia, Stalingrado, Marzabotto, El Alamein sono per noi il vocabolario esaustivo della Seconda Guerra Mondiale (Europea). Ma è stata una guerra mondiale, appunto. Per  altre sciagure e per altri esseri umani raccattati dovunque per combatterla. 

Non fa male ogni tanto assumere uno sguardo che non sia centrato esclusivamente sull'Europa.

Per esempio, altri nomi, altre diciture  nel teatro di operazioni del Pacifico, altri milioni di essere umani risucchiati nel nulla. Ne avevamo una percezione attraverso Hollywood. Adesso neanche più quello.

La Birmania è uno dei fronti primari dello scontro tra l'imperialismo giapponese e le popolazioni sottomesse. Le guerre, come sappiamo, hanno sempre sconvolto le alleanze e radicalizzato fino agli estremi le differenze culturali e linguistiche. Tutti cercati di giocare le loro carte, che ce l'ha. 

 Un mondo di rugiada / e dentro a ogni goccia di rugiada / un mondo in lotta, Issa Kobayashi,

L'asse della mia geografia mentale è cambiato quando, in un cimitero bonsai vicino alla Ma Shi Kha Na  pagoda nei pressi Sagaing [purtroppo collassata nel tremendo terremoto del 31 marso di quest'anno, 2025. Risaliva al XIV secolo], ho visto famiglie giapponesi fare memoria dei commilitoni inchinandosi profondamente davanti alle lapidi. 

Un cuore solo con l'Imperatore, i soldati del paese del sol levante invasero la Birmania nel dicembre del 1941 avendo al seguito le comfort women, cinesi e coreane, e ben stampato in mente l'ordine numero 575, operazione ridurre in cenere, emanato per combattere i cinesi.  Convinti di arrivare dalla Birmania all'India per colpire al cuore l'impero britannico, vi perderanno 190.000 uomini, più di dieci volte di quelli degli Alleati. Il suono sinistro della presenza della Kempeitai-Polizia Militare ha reso la via un incubo per molti birmani, meno per quelli che venivano addestrati nei suoi accampamenti, come Ne Win,  il futuro golpista, Maung Maumg Ka primo ministro negli anni Ottanta e Aung San  [padre nella patria e padre di Aung San Suu Kyi],  che dalla polizia segreta è portato a Tokyo per l'addestramento militare e per sancire l'alleanza contro gli inglesi. Il piccolo Esercito Birmano per l’Indipendenza-BIA parteciperà a qualche combattimento in patria e a scontri con le minoranze, come i karen, schierate da subito con gli inglesi, diversamente da Aung San e il suo esercito che questo passo lo farà solo nel marzo del 1945.

Fischiano le orecchie agli italiani che leggono di cambi di fronte, di resistenze contrapposte, di stragi, comitati di liberazione, Organizzazione Anti Fascista-AFO e si riconoscono in una memoria collettiva ricettacolo di odi, vendette, inimicizie difficilmente domabili.

        Aung San, il militare all'estrema destra, in attesa a Tokyo dei dignitari
 

                                  Avevano fretta i comandi nipponici. Volevano sfuggire agli attacchi che gli Alleati sferravano alle loro navi nel Golfo del Bengala. Uomini, armamenti, viveri, materiali si sarebbero potuti inviare via terra se solo ci fosse stata una ferrovia tra la Thailandia e la Birmania. Detto fatto, nel maggio del 1942 si avvia l’impresa ciclopica di costruirne una, lunga più di 400 chilometri, che attraversi le impenetrabili e malariche foreste tropicali, le montagne impervie, i fiumi vorticosi sotto il flagello dei monsoni. A metterci i corpi e l’energia necessaria 61.000 soldati prigionieri di guerra, australiani, olandesi, inglesi e indiani, e 180.000, forse il doppio, lavoratori forzati chiamati rŏmusha, giavanesi, malesi, cinesi, singaporiani, birmani, thailandesi, spesso con le proprie famiglie al seguito. Corpi stremati e devastati dalla malaria, dalla dissenteria, dalla fame, dal delirio. Corpi angariati dalla gratuita violenza degli aguzzini coreani, comandati e disprezzati dagli stessi ufficiali e ingegneri giapponesi.


L’anno dopo la “ferrovia della morte” è pronta. Tutt’intorno sono sepolti 90.000 rŏmusha e 13.000 soldati. Nessuno di loro ha mai fischiettato la marcetta del Ponte sul fiume Kwai.


Aveva sedici anni Isaac Fadoyebo (vedi foto) quando veniva gravemente ferito alla gamba in uno scontro con i giapponesi nell’Arakan, Birmania occidentale. I suoi commilitoni del reggimento britannico si ritirano e Isaac resta a terra svenuto in mezzo ai cadaveri. I soldati giapponesi l’hanno creduto morto e se ne sono andati. Quando riapre gli occhi scopre dai lamenti che anche David Kargbo è sopravvissuto. Non ce la fa a sorridere. Dalla foresta sbucano alcuni abitanti dei villaggi vicini, musulmani arakanesi,  li medicano e li portano al riparo. Più tardi uno di loro, Shuyiman, se li porta a casa e li nasconde per nove mesi, rischiando la fucilazione. Isaac viene dalla Nigeria e David della Sierra Leone. Fanno parte dei 100.000 soldati africani reclutati nelle  colonie inglesi dell’Africa, Kenya, Nigeria, Tanganika, Rhodesia, Uganda, e arruolati nella 11th East African Division e nelle  81st e 82nd West African Divisions. Inquadrati nell’esercito britannico, che in realtà è composto in maggioranza da indiani, gurkha, karen, kachin…., combattono contro i giapponesi. Combattono anche contro il razzismo diffuso al di qua e al di là del fronte.   Quale motivazione possono avere dal momento che non hanno ben chiaro in quale parte del mondo sono giunti, per combattere un nemico sconosciuto in questa terra sconosciuta in cui sono entrati? Si chiede un ufficiale inglese.

Isaac Fadoyebo è morto nel 2012. Un giornalista di Al Jazeera, Barnaby Phillips,   ha cercato per lui la famiglia birmana che l’ha salvato, l’ha trovata in uno sperduto paesino dello Stato Rakhine ex Arakan, ha recapitato una sua lettera di ringraziamento, dopo 67 anni.

I soldati africani che hanno combattuto sul fronte europeo, africano, asiatico della Seconda Guerra Mondiale, alla fine sono tornati come prima ad essere invisibili.

Il documentario da B. Phillips si trova  qui,  con approfondimenti sui soldati africani in Birmania/Myanmar. La stessa Al Jazeera pubblica una galleria di foto. Lo scrittore, regista e drammaturgo nigeriano Biyi Bandele ha trattato una storia simile in Burma Boy, tradotto in italiano, come fossimo nel 1935, Ali Banana e la guerra, Bompiani, 2008. 

Herman Perry era invece un afroamericano, ventenne, portamento elegante. Con altri 15.000 americani, il 60% “negri” come lui, e 35.000 civili indiani, birmani cinesi, sta partecipando alla costruzione della Ledo Road, quasi 800 chilometri dall’Assam in India, attraverso i 4000 metri delle montagne birmane, fino alla Cina, per rifornire le armate nazionaliste di Chiang Kai-shek.  

Lavoro duro, da negri. Passeggia sul limite della foresta ai bordi del suo accampamento, il geniere Perry ha pensieri umidicci e scontrosi, forse perché ha fumato il bel papavero che lì cresce in abbondanza e anche perché si è fatto novanta giorni di arresti per non essersi svegliato un mattino e due settimane in sovrappiù senza che nessuno gliene abbia spiegato la ragione. L’ufficiale bianco che l’ha punito gli viene incontro con la jeep, pare voglia di nuovo arrestarlo o così teme Perry, che gli spara senza esitazione un colpo con il suo fucile, il tenente Harold Cady dopo un po’ muore. 

Non gli resta che scappare. I suoi commilitoni non hanno fretta nell’inseguirlo. L’intricata foresta tropicale gli sembra più amica dell’apartheid razziale che vive il suo reggimento. Dopo alcuni giorni gli vengono incontro uomini delle popolazioni di montagna dette Naga. Accolto nei villaggi, partecipa alla loro vita, si rende utile. Non ha autorità da rivendicare né controlli da esercitare. Trova una fidanzata. Voglio passare il resto della mia vita nella giungla confesserà più tardi e vivere con la donna Naga che riconosco come mia moglie. La grande caccia all’uomo è però cominciata. Vivo o morto. Posti di blocco, pattuglie di ricognitori, linee telegrafiche in fibrillazione. Avvistato viene ferito, ma riesce a fuggire. Catturato una seconda volta, rinchiuso in un campo, si allontana grazie all’aiuto di alcuni commilitoni. Ma la sua evasione non può essere eterna e l’esercito degli Stati Uniti non può cedere allo smacco di un imprendibile soldato nero assassino di un ufficiale bianco. Alla fine il suo sogno fragile e bello svanisce, viene catturato, portato nella piantagione di tè a Ledo in India. La corte marziale lo condanna a morte per impiccagione e all’alba del 3 marzo 1945 la sentenza viene eseguita.

Brendan I. Koerner ha raccontato la storia di Herman Perry in Vivo o Morto, Piemme, 2012

Lo sforzo enorme della Ledo Road è documentato qui con innumerevoli foto d'epoca. 

Ottobre 2025, l'India ha proposto alla Cina di ricostruire la Ledo Road. La Cina sembra disponibile. Non sarà facile perché in Birmania  c'è una guerra civile tra la popolazione e la giunta militare. 


   Ledo Road

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