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Aung San Suu Kyi

 


Canal, ‘Aung San Suu Kyi, il mito accantonato’

'Voleva essere una studiosa, i casi della vita la fecero eroina. Ha affrontato le sue battaglie e sbagliato, sulle orme del padre'.

di Gianluca Vivacqua –

I subcontinenti asiatici non sono terre per i Mandela. Può sembrare il titolo di una parodia di un film dei fratelli Coen ma si tratta invece della realtà storica dei fatti: nel conciliare bianchi e neri in Sudafrica Nelson la grande anima, eroe della resilienza per il progresso civile e l’emancipazione politica del suo Paese, riuscì in quel miracolo che non era riuscito al collega Gandhi, in India, con musulmani e indù, e che non sarebbe riuscito all’altra collega Aung San Suu Kyi, in Myanmar, con buddhisti e mulsulmani (i Rohingya). Particolarmente sofferta la parabola di quest’ultima, che proprio nel momento in cui si era trovata nella possibilità di incidere maggiormente nella vita del Paese (da consigliera di Stato) si trovò accusata di esser divenuta l’aguzzina di quei diritti per cui aveva sempre lottato. L’ennesimo arresto per motivi politici, di lì a poco, culmine di un ennesimo colpo di Stato, servì in un certo qual modo a preservare quello che della sacralità della sua immagine non era stato ancora intaccato dall’usura degli affari di Stato. Un discorso simile vale per Gandhi, consegnato alla gloria eterna da una morte violenta, dopo un ultimo segmento di attività politica caratterizzato da scelte con le quali era riuscito a seminare in parti uguali odi e consensi. Ma fin dove si può spingere il parallelismo fra il padre della patria indiano e l’attivista birmana? Partiamo da qui per parlare di Aung San Suu Kyi con lo scrittore Claudio Canal, Profondo conoscitore della Birmania, alla San Suu Kyi Canal ha dedicato alcuni anni fa un’appassionata biografia (Aung San Suu Kyi – Il futuro della Birmania. Oltre la politica, Mimesis).

– Claudio Canal, si può istituire un parallelismo tra Aung e Gandhi?

“Non credo proprio. Troppo diversi sono i contesti storici, che richiederebbero un approfondimento non occasionale, e discordanti le esperienze di vita. Il giovane avvocato, Gandhi, prova in Sudafrica sulla propria pelle (scura) il razzismo e la xenofobia. E’ un test che lo porta poco a poco alla consapevolezza e alla militanza. Aung San Suu Kyi invece si trova ad assumere responsabilità politiche per caso. E’ a Londra il 31 marzo 1988. I due figli già sono a letto. Lei e il marito, Michael Aris, stanno leggendo quando una telefonata da Yangon, capitale di Birmania/Myanmar, l’avvisa che la madre è in pericolo di vita per il cuore malconcio. Valigie e volo per il Paese dove è nata 43 anni prima. Non è una città sonnolenta Rangoon/Yangon come pure il resto della nazione. Ci sono scontri tra popolazione ed esercito a causa di una dittatura militare che dura da decenni. C’è già scappato un morto tra i giovani manifestanti, ma la crepa si allarga e in un giorno che sembra escogitato da uno sciamano, l’8.8.88, l’esercito fa una strage. “La vita politica non mi attira. Al momento servo da forza unificatrice a causa del nome di mio padre e per il fatto che non sono in lizza per nessuna poltrona” dichiara A.S.Suu Kyi, e mai parole furono più smentite dal futuro che l’aspetta. Voleva diventare tibetologa, come il marito affermato studioso, invece si trova sulla scia tracciata dal padre che è anche il Padre della Patria, il Bogyoke-Generale Aung San, assassinato nel 1947, quando Suu Kyi aveva due anni. L’influenza gandhiana è attribuita da chi è alla ricerca di icone da venerare. Qualche traccia nel principio di nonviolenza, che in A.S.S.K. ha tuttavia una matrice esplicitamente di stampo buddhista. Anche in un suo scritto degli Anni Ottanta quando studiava in India, Burma and India. Some Aspects of Intellectual Life under Colonialism non presenta particolare devozione a Gandhi, pur rilevandone l’enorme importanza, com’è ovvio”.

– Pensa che le vicende poco trasparenti che hanno caratterizzato l’ultima parte della sua presidenza abbiano incrinato la sua immagine di eroina presso il popolo birmano?


“Non lo penso. Neppure era presidente, era Consigliere di Stato, un’alchimia di poteri in un palazzo di cristallo. Nei primissimi tempi di assestamento del golpe militare del febbraio 2021, quando scendere in piazza non era ancora destinazione assassinio da proiettili della giunta, il riferimento visivo erano i ritratti e le scritte inneggianti ad Aung San Suu Kyi. Ma presto la situazione è radicalmente cambiata, il conflitto si è trasformato in una guerra civile, con bombardamenti, rastrellamenti e tutto l’arsenale bellico all’opera.

La nozione di popolo, un po’ troppo romantica e risorgimentale, stringiamoci a coorte, non è applicabile alla Birmania [a mio parere neppure all’Italia o agli Stati Uniti…]. Il Paese è un’invenzione a tavolino del colonialismo inglese, colonia di una colonia, l’India, che ha messo insieme piccoli e medi imperi, città stato, comunità senza stato, federazioni varie, popolazioni con storia, cultura, lingua, religione diverse. Lo si è visto con la Seconda guerra mondiale, c’è chi è andato con il Giappone occupante, ad esempio Aung San, il padre, che all’italiana si è schierato con i vincitori all’ultimo minuto, chi con gli inglesi e chi ha cercato solo di sopravvivere. Lo si è visto con l’indipendenza del 1948 quando si è subito avviata una opposizione armata al potere centrale di popolazioni che gli inglesi avevano elegantemente chiamato aree di frontiera, aree escluse, per distinguerle dalla Birmania vera e propria. Una guerra mai decaduta, evoluta in fasi diverse fino ai nostri giorni. Una Birmania non birmana che rifiuta la birmanizzazione forzata della maggioranza principalmente di cultura buddhista, e di lingua birmana, immersa in un centinaio di altre lingue. E’ una maggioranza (bamar-barmana) che esprime un etno-nazionalismo più o meno marcato a seconda dei periodi e uno pseudo federalismo a geometria variabile. Aung San Suu Kyi è interna, come suo padre, a questa forma particolare di nazionalismo, di primo fra pari confederati. Con il caso dei Rohingyia, modesta minoranza musulmana mai accreditata, si è vista la sua reticenza a difenderli dalla ferocia congenita del Tatmadaw, l’esercito, e la fatale sottovalutazione della potenza e delle aspirazioni dell’esercito stesso, vero padrone anche economico del paese. E’ stata rispedita così nella sua abitazione consueta, il carcere, oggi nella disneyana capitale, Naypyidaw.

Dopo il golpe è successo però qualcosa di inedito, del tutto sconosciuto nei decenni precedenti: ad opporsi, a costituire la resistenza armata al potere centrale, non sono solo le minoranze, avvezze per forza o per scelta all’impegno bellico, ma una parte consistente e organizzata di popolazione birmana, che si è data un governo clandestino e una struttura politico militare propria, intrecciata in alleanze con le altre formazioni “etniche”. Il risultato è che la giunta militare controlla un terzo del paese e quando può si vendica atrocemente dei traditori della sua medesima nazionalità. Se la Russia sospendesse l’invio di armamenti, se la Cina uscisse dalla sua ambigua politica di sostegno-non-sostegno alla giunta, se il resto del mondo si ricordasse di questo paese incantevole e della sua popolazione gentile, sarebbe più facile pronosticare l’esito della guerra in corso”.

– Che cosa è oggi il mito Aung?


“Il mito Aung San Suu Kyi è che sta rinchiusa in una cella di isolamento, ha seri problemi cardiaci e osteoporosi acuta, a giugno compirà ottant’anni. Il figlio, Kim Aris, è da un anno che chiede il permesso di incontrarla, ma non gli è stato concesso. La casa in cui abitava, in riva al lago a Yangon, è stata messa in vendita per la terza volta da una società immobiliare dei militari, ma l’asta è nuovamente andata deserta. Non mi pare un mito di successo. Dalle nostre parti i miti si sfracellano a terra dopo brevi apparizioni. Siamo voraci di miti di qualsiasi confezione, ma siamo più eccitati dal loro scorrevole assortimento.


Abbiamo molto amato Aung San Suu Kyi, gli abbiamo dato il Nobel per la pace e mille altri gadget più o meno prestigiosi, che ci facevano sentire buoni, giusti e generosi. E’ bastata una increspatura nella sua politica che l’abbiamo maledetta, strappato le etichette che le avevamo affibbiato e relegata nell’oscurità del carcere e della memoria”
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