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ALTURE DELL'UTOPIA

 

ALTURE DELL'UTOPIA

NUNATAK n. 69

estate 2023


claudio canal     


 

Il trekking del secolo! Cime e picchi, gole, valichi, altopiani, sorgenti e laghi, ghiacciai. Sempre in quota e mai a valle. Dal Kirghizistan al Vietnam. Si sa quando si parte, si arriva chissà quando. Non l’ho mai visto uno spot turistico del genere. Le Terre Alte dell’Asia-Highlands Asia. Dal Pamir all’Himalaya al SudEst asiatico. L’invidia di Marco Polo.

Non ho mai visto neppure una mappa dedicata a questa ampia regione, né una cartografia che riporti le società umane, le mitostorie, le credenze religiose, le famiglie linguistiche, le culture artistiche, musicali, materiali, le connessioni commerciali, le conquiste militari, le zone climatiche, i bacini idrici, i passi montani, le varietà faunistiche…

Sappiamo che in una parte di questo territorio il silenzio è il suono più diffuso e che la verticalità spaziale struttura a modo suo i rapporti sociali e gli universi d’immaginazione, le pratiche agricole, il benvenuto ad una nascita e il compianto ad un funerale, il digitare su una tastiera…

Sperimentare il mondo e la vita nel Badakhsan è diverso che viverli a Kabul, nel Baltisan rispetto a Islamabad, nel Tawang a Nuova Delhi, nell’area Kachin a Yangon, nel Tay Nguyen ad Hanoi


Questi troppi puntini di sospensione rivelano ansia - cartographic anxieties. ha suggerito qualcuno- e pure incertezza e vaghezza che un po’ ci sgomentano. Solo quando finalmente scorrono i nomi di quell’invenzione moderna che sono gli Stati Nazione ci rassereniamo. Contribuisce al nostro smarrimento anche non sapere esattamente dove comincino e dove si interrompano le Highlands e neppure quando una Terra Bassa diventi tassativamente Alta. Ma se metto in fila gli Stati  incardinati in questa vasta porzione di superficie terrestre, il gioco è fatto, il catalogo è questo: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India, Nepal, Cina, Mongolia, Bhutan, Bangladesh, Birmania/Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam. Con questo magico elenco usciamo dalla foschia di un territorio indeterminato ed entriamo nella precisione e nell’esattezza, tutto diventa meno chimerico e la nostra fantasticheria geografica è placata dalla sfilza di nomi dai confini ben definiti. Subito ci è chiara la esuberante potenza dello Stato Nazione che cerca di risolvere le interminabili battaglie discorsive con le popolazioni montane definendole tribù, stranieri, popolazioni indigene, etnie, clan, comunità aborigene, native, autoctone. Là dove il colonialismo ha trionfato, cartografia ed etichettatura sono state attrezzi di dominio di prima qualità, ripresi quasi sempre e utilizzati in larga misura anche dai regimi postcoloniali.

                                  da  Zomia and beyond

L’ontologia della pianura genera una teoria sociale binaria: le popolazioni delle alture-hills peoples sono periferia, assenza, deviazione, inciviltà, e, qualche volta, minaccia, che il centro deve sottoporre a controllo e normazione. Per dirla all’europea, fungono da Africa delle pianure, del centro.

Le Terre Alte Asiatiche non sono un mondo a parte, esotico e folkloristico. Sono un “continente”, un insieme connesso e sconnesso di società senza Stato considerate periferia della periferia, un paesaggio transregionale che ha convissuto con le Terre Basse, qualche volta le ha contrastate e conquistate, altre le ha subite. Le relazioni intra ed inter regionali tra le popolazioni delle alture sono sempre state molto estese sia sul piano culturale sia su quello economico, favorite da storiche migrazioni in altura e dall’alto verso il basso e viceversa. I confini complessi e spesso porosi, mai barriere insormontabili. Qui sono stati progettati Imperi e Stati, come Tibet, Nepal, Buthan, la potenza trasformativa della modernità è stata negoziata, deviata, resa “locale”. Le innumerevoli narrazioni epiche sono state reinterpretate [come i dastan dell’Asia Centrale e i Gesar himalayani], diffuse e riscritte in molteplici versioni e lingue.  Qualche volta la modernità stessa ha rivitalizzato tradizioni, qualche altra ha incrementato poteri locali che hanno “scavalcato” l’autorità centrale e si sono agganciati a network globali, come vedremo per Birmania/Myanmar. Una connettography, così la chiama Parag Khanna, tutta da scrivere, che disegni le autostrade d’altura e di pianura ma anche quelle delle ideologie e delle utopie. Mai, comunque, le Terre Alte sono state un semplice recipiente di influenze, un passivo adattarsi agli incanti e alle pressioni provenienti dal basso.

 

Mari e monti

 

Cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre…  Così scriveva qualche decennio fa Fernand Braudel, l’inventore del Mediterraneo come oggetto storiografico e nel 2002 Willem Van Schendel: Se i mari possono ispirare gli studiosi a costruire mondi regionali braudeliani, perché non lo possono anche le più grandi catene montuose del pianeta? Bella domanda, che contiene anche la proposta di assegnare il nome di Zomia alle Terre Alte d’Asia. Se hai un nome su una mappa vuol dire che hai un oggetto, uno spazio soprattutto mentale con cui confrontarti. Puoi esercitare l’immaginazione, come quando leggi Medio Oriente che è anch’esso mille cose insieme.

Zomia pare abbia buone radici nell’intreccio di lingue d’altura, ma non è diventata uno spazio istituzionalmente riconosciuto. L’ha riproposta nel 2009 James C. Scott in L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico, un libro discusso e discutibile che ha fatto epoca non solo negli ambienti accademici.

Il succo è: i popoli della pianura sono fuggiti sulle alture, si sono rifugiati nelle società senza Stato per sottrarsi alla fiscalità statale, al servizio di leva, per realizzare forme di coltivazione non sottoposte all’appropriazione trigonometrica degli Uffici Fiscali del centro, come capita invece nelle grandi aree irrigate per il riso. Meglio un’agricoltura frazionata e coltivazioni eterogenee che a loro volta si intrecciano a narrazioni prive di miti fondativi e di scritture sacre. In montagna poi contano di più i corpi che le grandi superfici.

Affascinante interpretazione, non sostenuta, pare, da prove documentarie che invece mostrano diversi processi di migrazioni dall’alto verso il basso. Ma soprattutto lo sguardo di Scott inchioda le popolazioni delle alture ad un ruolo di rifugiate, ribelli reattive all’iniziativa dello Stato centrale e il loro stanziarsi in alto come di seconda scelta. Scott impiega gli stessi paradigmi adottati dalle Terre basse, anche se con segni di valore rovesciati.

Le Highlands non sono mai state isole inaccessibili ai grandi giochi politici mondiali. Senza andare troppo indietro nel tempo, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda, smentendo il requisito di mondi sociali marginali e periferici delle Terre Alte, hanno allestito tra quelle popolazioni, sui valichi e le carreggiate, teatri bellici di strategica incidenza che hanno profondamente segnato la cosmovisione delle persone, come direbbero in America Latina, e l’assetto del paesaggio. Habitat ecologicamente fragile, patrimonio di biodiversità globale. Anche lì, come dovunque, la natura è inquieta, per i cambiamenti climatici e per la forsennata pressione estrattiva che gli Stati centrali esercitano: “grandi opere” in forma di dighe gigantesche, nuove e vecchie miniere, pipelines di ogni tipo, infrastrutture cementizie, deforestazione crescente, militarizzazione dei territori, urbanizzazione dei suoli. Il tutto come promessa di un immaginifico sviluppo e di appetitosa prosperità. Ogni “animismo”, ogni trascendenza liquidati dai bulldozer. Una distruzione non così creativa, come vorrebbero i devoti del capitalocene.

La Nuova via della Seta-New Silk Road ha nelle Terre Alte uno dei suoi assi portanti. E’ la via della grande sfida per l’egemonia politica ed economica sul pianeta. Era un tempo la via in cui i movimenti e i commerci procedevano in modo autonomo. E’ ora la via fortemente disciplinata da Pechino.

 

Birmania/Myanmar

 

La condensazione in vitro della relazione terre alte/basse si presenta nel suo stadio cristallizzato nella regione chiamata Birmania/Myanmar. Osservare una cartina “fisica” della regione chiarisce  subito le idee ed evita lunghi giri di parole. E’ una conformazione che si trova spesso sul pianeta terra, per esempio in Italia, e che ha dato luogo a organizzazioni socio-politiche molto differenti tra di loro.

La Corona britannica ha atteso il 1860 per sostituire nell’impresa coloniale la  Compagnia delle Indie, una società commercial-militare privata. Ci sono volute tre guerre per sottomettere alla fine tutta l’area rappresentata dalla cartina, su cui consistevano Microstati, Stati secolari, Principati, “tribù” indipendenti, Città Stato, Regni momentanei.  La efficiente cartografia coloniale si occupa di imbalsamare la regione con un tratto di matita colorata e con l’imposizione di un nome storicamente traballante. Un “ordine senza senso” l’ha definito Aung-Thwin in un importante articolo.  Ne risulta una Burma Proper/Ministerial, una Birmania vera e propria al centro, in pianura, e tutto il resto una serie di zone dette di Frontiera, peraltro labile e porosa ancora adesso.  Con la Cina sono 2000 km, India, 1650 , Thailandia, 2400. Linea di separazione o di contatto?  Non era il paradiso terrestre prima della colonia, era un universo di conflitti, di scambi, di mescolanze. Egemonie e sudditanze. C’è chi approfitta del colonialismo, chi lo combatte duramente. Irrompe poi la grande storia nella forma della Seconda Guerra Mondiale, di cui la Birmania costituisce uno dei fronti principali, con la sua provvista di sofferenze, il mercatino delle alleanze e il burrone delle ostilità. L’indipendenza del paese nel 1948 cerca di uscire dal dualismo tra la Birmania vera e propria e quella di frontiera, tra alto e basso, ma non ci riesce, nonostante alcuni tentativi non banali.


La forza della Guerra Fredda, da che parte stai?, e la ruvida certezza della Birmania proper di essere veramente proper, inducono un irrigidimento politico. La Birmania che si dichiara vera e propria si vede come buddhista, parlante una lingua di prestigio, anima della nazione e motore della stessa. E’ abbagliata dall’essere la maggioranza della popolazione e quindi con il compito, il destino manifesto di birmanizzare il resto perché la Nazione immaginata sia finalmente sé stessa, un corpo unico. Questa matrice immaginifica ha costruito tutti gli Stati moderni, come sappiamo. Qui assume il format esplicito e irriducibile della guerra permanente, perché molte frontier areas [anche scheduled o excluded areas] non ci stanno. Distendono uno sguardo lungo sul passato e sul futuro, e li vedono diversi dal progetto che si irradia bellicoso dalla capitale. Qualche volta per incompatibilità culturale, non sono buddhisti, ma cristiani di diverse denominazioni ben amalgamati con le credenze tradizionali, parlano lingue altre, gastronomie particolari, mitografie uniche, sono in conflitto con popolazioni limitrofe o con minoranze interne ovvero le minoranze delle minoranze che affascinano molto gli antropologi. In altri casi hanno sistemi economici centrati con il resto del mondo, connessioni globali che ignorano Yangon o Naypyidaw, la nuova capitale al centro del paese. Coltivano l’oppio, lo lavorano, idem con le metanfetamine. Gli interlocutori stanno a Londra, New York, Singapore…Succede lo stesso con il teak, legno di pregio o con la giada o con altre prelibatezze locali, rubini e, perché no? donne.

 

Vita di guerra

 

Per resistere alla pressione di quell’entità che è esercito e contemporaneamente forza economica e Stato, detta Tatmadaw, le società delle alture si sono militarizzate. Formazioni guerrigliere o vere e proprie forze armate con periodici arruolamenti, addestramenti formali e armi pesanti, dipende dagli appoggi. E’ il paradosso birmano, come lo chiama qualcuno: un adattamento alla guerra come continuum e non come momento di rottura, come condizione di vita in cui tutti cercano e spesso trovano un sistema alternativo di profitto, di potere e anche di protezione. Lo scontro è virulento, non ci sono né vinti né vincitori. Prolungare la guerra può avere una priorità più alta del vincerla. E’ un modello che ha sempre più successo nel mondo, è un’avvisaglia di futuro e non un rimasuglio del passato. Non è statico, sempre in evoluzione e trasformazione, non monolitico. Può sciogliersi in un accordo (precario) di coesistenza col potere centrale, può rinchiudersi nell’indipendenza di una Regione Speciale dedita ai fatti suoi e a stuzzicare i vicini, può affrontare in campo aperto il Tatmadaw, può fuggire al di là e tornare poi a riprendersi il dovuto. Quasi mai questo modello prevede la cooperazione interetnica, ma deve accettare e, qualche volta richiedere, la protezione del potente vicino cinese che ingigantisce il paradosso: appoggia i militari al potere centrale e, nello stesso tempo, finanzia armi, imprese, infrastrutture, casinò, di regioni in conflitto col centro stesso. E’ un disordine sensato che regna da più di settant’anni. Il colpo di Stato del febbraio 2021 ha cambiato le carte in tavola, anche se internazionalmente sembra passare inosservato, soppiantato da altre urgenze, tipo l’Ucraina.

                            resistenza in area Sagaing

Per la prima volta a schierarsi contro il potere centrale, la giunta militare, è una parte della Birmania vera e propria e non solo le società delle alture. Birmani contro birmani, più correttamente, barmani contro barmani. La popolazione guida si sdoppia, sta con e contro il centro. Il suo riconosciuto centro. La topografia dell’insurrezione è cambiata. Il Tatmadaw non deve solo salire sulle alture per stanare i ribelli, i refrattari alla birmanizzazione, ma deve scontrarsi con il People’s Defence Force, braccio armato di se stesso e con vago riferimento al governo ombra, molto in ombra, National Unity Government-NUG. E lo scontro avviene al centro anche spaziale, nella regione Sagaing, grande quanto l’Italia settentrionale. Il Tatmadaw subisce un numero di perdite umane molto alto anche perché sta combattendo non solo contro l’altro da sé, le popolazioni di frontiera, ma anche con la sua ombra interna. Non ha mai avuto remore, ma in questo caso ancora di più è inferocito, si tratta dell’eliminazione strategica dei traditori usciti dal seno della Madre Patria Birmana: i villaggi sono bombardati, incendiati, rasi al suolo dall’alto dei caccia, degli elicotteri, dei droni. La vendetta aeronautica.

Che questa nuova situazione sia risolutiva lo sperano in molti, fuori del paese, me compreso. E’ un conflitto armato che può invece riconfermare la sua vocazione: carsico, intermittente, in letargo, risorgente. Più di mezzo secolo di guerra civile ha intrecciato sostanziali interessi tra alto e basso, ha generato profonde animosità tra le nazionalità minoritarie stesse, non ha prodotto alcun realistico progetto di Stato federato né indicato le strade per eventualmente costruirlo. Il tempo del polline che genera nuova vita nei sogni di una nazione o è irrimediabilmente passato o è tutto a venire.

 

  

LETTURE

 

James C. Scott, L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico, trad. Maddalena Ferrara, Einaudi, 2020 [orig. 2009]

 

Jelle J.P. Wouters and Michael T. Heneise  (ed.), Routledge Handbook of Highland Asia, Routledge Taylor& Francis, 2023

 

Jean Michaud,  Historical Dictionary of the Peoples of the Southeast Asian Massif,

The Scarecrow Press, 2006

 

Parag Khanna, Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, trad. Franco Motta, Fazi Editore, 2016

 

Alessandro Rippa, Galen Murton and Matthäus Rest, Building Highland Asia in the Twenty-First Century, Verge: Studies in Global Asias, 2020, Vol. 6, No. 2  University of Minnesota Press, 

scaricabile qui

 

L’articolo citato di Michael Aung-Thwin, The British "Pacification" of Burma: Order without Meaning, in Journal of Southeast Asian Studies, Vol. 16, No. 2, 1985,


Ho utilizzato alcuni spunti dal mio Aung San Suu Kyi. Il futuro della Birmania. Oltre la politica, Mimesis, Milano-Udine, 2016

 

Una viva e approfondita esposizione in Massimo Morello, Burma Blue, Rosenberg & Sellier, Torino,  2021

Un rendiconto non scontato in Reshmi Banerjee, Reflections on Myanmar. Identity, Heritage, Aspirations, Routledge, 2023


vedi anche in questo blog, 14 aprile 2023

 




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