ALTURE DELL'UTOPIA
Il trekking del secolo! Cime e picchi,
gole, valichi, altopiani, sorgenti e laghi, ghiacciai. Sempre in quota e mai a
valle. Dal Kirghizistan al Vietnam. Si sa quando si parte, si arriva chissà
quando. Non l’ho mai
visto uno spot turistico del genere. Le Terre Alte dell’Asia-Highlands Asia.
Dal Pamir all’Himalaya al SudEst asiatico. L’invidia di Marco Polo.
Non ho mai
visto neppure una mappa dedicata a questa ampia regione, né una cartografia che
riporti le società umane, le mitostorie, le credenze religiose, le famiglie
linguistiche, le culture artistiche, musicali, materiali, le connessioni
commerciali, le conquiste militari, le zone climatiche, i bacini idrici, i
passi montani, le varietà faunistiche…
Sappiamo
che in una parte di questo territorio il silenzio è il suono più diffuso e che la
verticalità spaziale struttura a modo suo i rapporti sociali e gli universi
d’immaginazione, le pratiche agricole, il benvenuto ad una nascita e il
compianto ad un funerale, il digitare su una tastiera…
Sperimentare
il mondo e la vita nel Badakhsan è diverso che viverli a Kabul,
nel Baltisan rispetto a Islamabad, nel Tawang a Nuova
Delhi, nell’area Kachin a Yangon, nel Tay Nguyen ad Hanoi…
Questi troppi puntini di sospensione rivelano ansia - cartographic anxieties. ha suggerito qualcuno- e pure incertezza e vaghezza che un po’ ci sgomentano. Solo quando finalmente scorrono i nomi di quell’invenzione moderna che sono gli Stati Nazione ci rassereniamo. Contribuisce al nostro smarrimento anche non sapere esattamente dove comincino e dove si interrompano le Highlands e neppure quando una Terra Bassa diventi tassativamente Alta. Ma se metto in fila gli Stati incardinati in questa vasta porzione di superficie terrestre, il gioco è fatto, il catalogo è questo: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India, Nepal, Cina, Mongolia, Bhutan, Bangladesh, Birmania/Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam. Con questo magico elenco usciamo dalla foschia di un territorio indeterminato ed entriamo nella precisione e nell’esattezza, tutto diventa meno chimerico e la nostra fantasticheria geografica è placata dalla sfilza di nomi dai confini ben definiti. Subito ci è chiara la esuberante potenza dello Stato Nazione che cerca di risolvere le interminabili battaglie discorsive con le popolazioni montane definendole tribù, stranieri, popolazioni indigene, etnie, clan, comunità aborigene, native, autoctone. Là dove il colonialismo ha trionfato, cartografia ed etichettatura sono state attrezzi di dominio di prima qualità, ripresi quasi sempre e utilizzati in larga misura anche dai regimi postcoloniali.
da Zomia and beyond
L’ontologia
della pianura genera una teoria sociale binaria: le popolazioni delle alture-hills
peoples sono periferia, assenza, deviazione, inciviltà, e, qualche
volta, minaccia, che il centro deve sottoporre a controllo e
normazione. Per dirla all’europea, fungono da Africa delle pianure, del centro.
Le Terre
Alte Asiatiche non sono un mondo a parte, esotico e folkloristico. Sono un
“continente”, un insieme connesso e sconnesso di società senza Stato considerate
periferia della periferia, un paesaggio transregionale che ha convissuto con le
Terre Basse, qualche volta le ha contrastate e conquistate, altre le ha
subite. Le relazioni intra ed inter regionali tra le popolazioni delle alture
sono sempre state molto estese sia sul piano culturale sia su quello economico,
favorite da storiche migrazioni in altura e dall’alto verso il basso e
viceversa. I confini complessi e spesso porosi, mai barriere insormontabili. Qui
sono stati progettati Imperi e Stati, come Tibet, Nepal, Buthan, la potenza
trasformativa della modernità è stata negoziata, deviata, resa “locale”. Le
innumerevoli narrazioni epiche sono state reinterpretate [come i dastan
dell’Asia Centrale e i Gesar himalayani], diffuse e riscritte in molteplici
versioni e lingue. Qualche volta la
modernità stessa ha rivitalizzato tradizioni, qualche altra ha incrementato
poteri locali che hanno “scavalcato” l’autorità centrale e si sono agganciati a
network globali, come vedremo per Birmania/Myanmar. Una connettography, così
la chiama Parag Khanna, tutta da scrivere, che disegni le autostrade d’altura e
di pianura ma anche quelle delle ideologie e delle utopie. Mai, comunque, le Terre
Alte sono state un semplice recipiente di influenze, un passivo adattarsi
agli incanti e alle pressioni provenienti dal basso.
Mari e
monti
Cos’è il
Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi.
Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di
civiltà accatastate le une sulle altre… Così scriveva qualche
decennio fa Fernand Braudel, l’inventore del Mediterraneo come oggetto
storiografico e nel 2002 Willem Van Schendel: Se i mari possono ispirare gli
studiosi a costruire mondi regionali braudeliani, perché non lo possono anche
le più grandi catene montuose del pianeta? Bella domanda, che contiene
anche la proposta di assegnare il nome di Zomia alle Terre Alte
d’Asia. Se hai un nome su una mappa vuol dire che hai un oggetto, uno
spazio soprattutto mentale con cui confrontarti. Puoi esercitare
l’immaginazione, come quando leggi Medio Oriente che è anch’esso mille
cose insieme.
Zomia pare abbia buone radici
nell’intreccio di lingue d’altura, ma non è diventata uno spazio istituzionalmente
riconosciuto. L’ha riproposta nel 2009 James C. Scott in L’arte di non
essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico,
un libro discusso e discutibile che ha fatto epoca non solo negli ambienti
accademici.
Il succo è:
i popoli della pianura sono fuggiti sulle alture, si sono rifugiati nelle società
senza Stato per sottrarsi alla fiscalità statale, al servizio di leva, per
realizzare forme di coltivazione non sottoposte all’appropriazione
trigonometrica degli Uffici Fiscali del centro, come capita invece nelle grandi
aree irrigate per il riso. Meglio un’agricoltura frazionata e coltivazioni
eterogenee che a loro volta si intrecciano a narrazioni prive di miti fondativi
e di scritture sacre. In montagna poi contano di più i corpi che le grandi
superfici.
Affascinante
interpretazione, non sostenuta, pare, da prove documentarie che invece mostrano
diversi processi di migrazioni dall’alto verso il basso. Ma
soprattutto lo sguardo di Scott inchioda le popolazioni delle alture ad un
ruolo di rifugiate, ribelli reattive all’iniziativa dello Stato centrale e il
loro stanziarsi in alto come di seconda scelta. Scott impiega gli stessi
paradigmi adottati dalle Terre basse, anche se con segni di valore
rovesciati.
Le Highlands
non sono mai state isole inaccessibili ai grandi giochi politici mondiali.
Senza andare troppo indietro nel tempo, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra
Fredda, smentendo il
requisito di mondi sociali marginali e periferici delle Terre Alte,
hanno allestito tra quelle popolazioni, sui valichi e le carreggiate, teatri
bellici di strategica incidenza che hanno profondamente segnato la cosmovisione
delle persone, come direbbero in America Latina, e l’assetto del paesaggio.
Habitat ecologicamente fragile, patrimonio di biodiversità globale. Anche lì,
come dovunque, la natura è inquieta, per i cambiamenti climatici e per la forsennata
pressione estrattiva che gli Stati centrali esercitano: “grandi opere” in forma
di dighe gigantesche, nuove e vecchie miniere, pipelines di ogni tipo,
infrastrutture cementizie, deforestazione crescente, militarizzazione dei
territori, urbanizzazione dei suoli. Il tutto come promessa di un immaginifico
sviluppo e di appetitosa prosperità. Ogni “animismo”, ogni trascendenza
liquidati dai bulldozer. Una distruzione non così creativa, come vorrebbero i devoti
del capitalocene.
La Nuova
via della Seta-New Silk Road ha nelle Terre Alte uno dei suoi assi portanti.
E’ la via della grande sfida per l’egemonia politica ed economica sul pianeta.
Era un tempo la via in cui i movimenti e i commerci procedevano in modo autonomo.
E’ ora la via fortemente disciplinata da Pechino.
Birmania/Myanmar
La
condensazione in vitro della relazione terre alte/basse si presenta nel suo
stadio cristallizzato nella regione chiamata Birmania/Myanmar. Osservare una
cartina “fisica” della regione chiarisce subito le idee ed evita lunghi giri di parole.
E’ una conformazione che si trova spesso sul pianeta terra, per esempio in
Italia, e che ha dato luogo a organizzazioni socio-politiche molto differenti
tra di loro.
La forza
della Guerra Fredda, da che parte stai?, e la ruvida certezza della Birmania proper
di essere veramente proper, inducono un irrigidimento politico. La
Birmania che si dichiara vera e propria si vede come buddhista, parlante
una lingua di prestigio, anima della nazione e motore della stessa. E’
abbagliata dall’essere la maggioranza della popolazione e quindi con il
compito, il destino manifesto di birmanizzare il resto perché la Nazione
immaginata sia finalmente sé stessa, un corpo unico. Questa matrice
immaginifica ha costruito tutti gli Stati moderni, come sappiamo. Qui assume il
format esplicito e irriducibile della guerra permanente, perché molte frontier
areas [anche scheduled o excluded areas] non ci stanno.
Distendono uno sguardo lungo sul passato e sul futuro, e li vedono diversi dal
progetto che si irradia bellicoso dalla capitale. Qualche volta per
incompatibilità culturale, non sono buddhisti, ma cristiani di diverse
denominazioni ben amalgamati con le credenze tradizionali, parlano lingue
altre, gastronomie particolari, mitografie uniche, sono in conflitto con
popolazioni limitrofe o con minoranze interne ovvero le minoranze delle
minoranze che affascinano molto gli antropologi. In altri casi hanno sistemi
economici centrati con il resto del mondo, connessioni globali che ignorano
Yangon o Naypyidaw, la nuova capitale al centro del paese. Coltivano l’oppio,
lo lavorano, idem con le metanfetamine. Gli interlocutori stanno a Londra, New
York, Singapore…Succede lo stesso con il teak, legno di pregio o con la
giada o con altre prelibatezze locali, rubini e, perché no? donne.
Vita di
guerra
Per
resistere alla pressione di quell’entità che è esercito e contemporaneamente forza
economica e Stato, detta Tatmadaw, le società delle alture si sono
militarizzate. Formazioni guerrigliere o vere e proprie forze armate con periodici
arruolamenti, addestramenti formali e armi pesanti, dipende dagli appoggi. E’ il
paradosso birmano, come lo chiama qualcuno: un adattamento alla guerra
come continuum e non come momento di rottura, come condizione di vita in cui
tutti cercano e spesso trovano un sistema alternativo di profitto, di potere e
anche di protezione. Lo scontro è virulento, non ci sono né vinti né vincitori.
Prolungare la guerra può avere una priorità più alta del vincerla. E’ un
modello che ha sempre più successo nel mondo, è un’avvisaglia di futuro e non
un rimasuglio del passato. Non è statico, sempre in evoluzione e trasformazione,
non monolitico. Può sciogliersi in un accordo (precario) di coesistenza col
potere centrale, può rinchiudersi nell’indipendenza di una Regione Speciale
dedita ai fatti suoi e a stuzzicare i vicini, può affrontare in campo aperto il
Tatmadaw, può fuggire al di là e tornare poi a riprendersi il dovuto.
Quasi mai questo modello prevede la cooperazione interetnica, ma deve accettare
e, qualche volta richiedere, la protezione del potente vicino cinese che
ingigantisce il paradosso: appoggia i militari al potere centrale e, nello
stesso tempo, finanzia armi, imprese, infrastrutture, casinò, di regioni in
conflitto col centro stesso. E’ un disordine sensato che regna da più di
settant’anni. Il colpo di Stato del febbraio 2021 ha cambiato le carte in
tavola, anche se internazionalmente sembra passare inosservato, soppiantato da
altre urgenze, tipo l’Ucraina.
resistenza in area Sagaing
Per la
prima volta a schierarsi contro il potere centrale, la giunta militare, è una
parte della Birmania vera e propria e non solo le società delle alture.
Birmani contro birmani, più correttamente, barmani contro barmani.
La popolazione guida si sdoppia, sta con e contro il centro. Il suo
riconosciuto centro. La topografia dell’insurrezione è cambiata. Il Tatmadaw
non deve solo salire sulle alture per stanare i ribelli, i refrattari alla
birmanizzazione, ma deve scontrarsi con il People’s Defence Force,
braccio armato di se stesso e con vago riferimento al governo ombra, molto in
ombra, National Unity Government-NUG. E lo scontro avviene al centro
anche spaziale, nella regione Sagaing, grande quanto l’Italia
settentrionale. Il Tatmadaw subisce un numero di perdite umane molto
alto anche perché sta combattendo non solo contro l’altro da sé, le popolazioni
di frontiera, ma anche con la sua ombra interna. Non ha mai avuto
remore, ma in questo caso ancora di più è inferocito, si tratta
dell’eliminazione strategica dei traditori usciti dal seno della Madre Patria
Birmana: i villaggi sono bombardati, incendiati, rasi al suolo dall’alto dei
caccia, degli elicotteri, dei droni. La vendetta aeronautica.
Che questa
nuova situazione sia risolutiva lo sperano in molti, fuori del paese, me
compreso. E’ un conflitto armato che può invece riconfermare la sua vocazione:
carsico, intermittente, in letargo, risorgente. Più di mezzo secolo di guerra
civile ha intrecciato sostanziali interessi tra alto e basso, ha
generato profonde animosità tra le nazionalità minoritarie stesse, non ha
prodotto alcun realistico progetto di Stato federato né indicato le strade per
eventualmente costruirlo. Il tempo del polline che genera nuova vita nei sogni
di una nazione o è irrimediabilmente passato o è tutto a venire.
LETTURE
James C.
Scott, L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani
del Sud-est asiatico, trad. Maddalena Ferrara, Einaudi, 2020 [orig. 2009]
Jelle J.P.
Wouters and Michael T. Heneise (ed.), Routledge
Handbook of Highland Asia, Routledge Taylor& Francis, 2023
Jean
Michaud, Historical Dictionary of the
Peoples of the Southeast Asian Massif,
The
Scarecrow Press, 2006
Parag
Khanna, Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, trad. Franco
Motta, Fazi Editore, 2016
Alessandro Rippa, Galen Murton and Matthäus Rest, Building Highland Asia in the Twenty-First Century, Verge: Studies in Global Asias, 2020, Vol. 6, No. 2 University of Minnesota Press,
scaricabile qui
L’articolo citato di Michael Aung-Thwin, The British "Pacification" of Burma: Order without Meaning, in Journal of Southeast Asian Studies, Vol. 16, No. 2, 1985,
Ho utilizzato alcuni spunti dal mio Aung
San Suu Kyi. Il futuro della Birmania. Oltre la politica, Mimesis,
Milano-Udine, 2016
Una viva e approfondita esposizione
in Massimo Morello, Burma Blue, Rosenberg & Sellier, Torino, 2021
Un rendiconto non scontato in Reshmi Banerjee, Reflections on Myanmar. Identity, Heritage, Aspirations, Routledge, 2023
vedi anche in questo blog, 14 aprile 2023
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