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Jenin, Jenin

 

Arab American University a Jenin, Territori Occupati da Israele, Faculty of Modern Sciences. Il campus sta a un quarto d’ora dal centro storico della città e ha più di 10.000 studenti suddivisi in diverse facoltà.

La nostra fantasia alla parola Jenin sfoggia altre immagini, vere come vera è questa.

Sono giorni di luglio in cui di là, a Tel Aviv, e di qua, a Jenin, si impiantano set di film che raccontano storie molto diverse.

A Tel Aviv il capo della polizia della città, Ami Eshed, si dimette, eufemismo, perché non riesce a spaccare le ossa come gli chiede il ministro della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, ultraortodosso o anche solo ultras. Una marea di manifestanti occupa l’aeroporto e blocca l’autostrada. Polizia a cavallo, idranti, lacrimogeni. Come nei mesi precedenti, quando si protestava sventolando la bandiera israeliana contro la progettata riforma giudiziaria che, dicono gli oppositori, trasformerebbe lo Stato di Israele in uno Stato fascistoide o anche fascista. 

Ma non era l’unica magnifica democrazia mediorientale? Effettivamente, se penso all’Iran, all’Egitto o alla Siria, non ci sono paragoni, al momento. Ma se penso alla Francia so che in Francia era democratica, in Algeria o in Indocina seguiva altri modelli. Londra certo, ma a Belfast o a Nairobi e altrove non se ne vedeva granché di democrazia, qualsiasi cosa intendiamo con questa parola. Sugli Stati Uniti siamo tutti informati.

Il film che si gira a Tel Aviv è una commedia di interni di famiglia. Quello che si gira a Jenin è invece un film d’azione in cui tira una certa aria ucraina, con molti morti, elicotteri da combattimento, droni, missili, blindati, bulldozer, aerei di controllo a bassa quota. Invasione di truppe scelte, di notte e di giorno, casa per casa. Come colonna sonora la Cavalcata della Valchirie, essendo Richard Wagner sdoganato da tempo in Israele. Sono molte le riprese di repertorio per questo film, identiche inquadrature con padri e madri, nonni e nonne e perfino bisnonni, quando Jenin, e tutto il resto, era sotto il tallone inglese e già dava filo da torcere.

Cosa cerca lo Stato d’Israele con i rastrellamenti a Jenin e vicinanze? Cerca l’invisibile, quella forza mentale che figli, nipoti e pronipoti, concretizzano, refrattari ormai alle litanie dei due Stati, dello Stato Binazionale, dell’Autonomia Palestinese, perfino dell’Apartheid. 

Nella materiale realtà e nel racconto hanno addosso 57 anni di rigida occupazione militare, di lutti e nessuna via d’uscita all’orizzonte. Col kalashnikov in mano almeno un po’ di lugubre scompiglio lo creano. E i duri d’Israele lo sanno, cercano in tutti i modi quella forza d’animo incorporea, per alimentarla e provocarla, così da poter finalmente avviare l’eterno e autentico progetto del sionismo militar-politico, preso e ripreso, agitato sottobanco e all’aria aperta: il transfert. Che se ne vadano i palestinesi dai loro “fratelli” arabi o dove gli pare, sono abituati ad attraversare frontiere. E’ dagli Anni Trenta che è tutto scritto nero su bianco. Ben Gurion la sapeva lunga. Qualcuno resterà, sottomesso e incantato dalla nostra supremazia tecnologica, culturale, economica e politica. Qualsiasi sgangherato sondaggio dice che in Cisgiordania più della metà della popolazione vorrebbe espatriare, a Gaza due terzi. Noi duri vi sproniamo con le cattive a farlo. Il Resto del Mondo fischietta e si gira dall’altra. Non c’è problema.

Così finalmente noi ci rappacificheremo con questa Nostra Terra che l’Altissimo predilige e ci ha dato in eredità, come documentato dalle scritture ebraiche: Genesi 13, 14; 15, 18-21; 17,8; Numeri 31, 1-54; 34, 1-13. 

Una geografia sacra molto malleabile, ma di lassù Erets Yisra’el è un puntino nell’universo.


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