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METTI IN ISRAELE...

 




Metti in Israele…

Metti che, nel fragore delle manifestazioni contro le iniziative antidemocratiche del Governo Netanyahu, qualche israeliano si accorga che la degenerazione para-fascista non è inaspettatamente piovuta dal cielo, ma è una gloriosa pratica rovesciata, senza se e senza ma, da più di un cinquantennio sui palestinesi che abitano al di là della strada. 

Metti che lo stupefatto cittadino si renda conto che nei Territori Occupati il suo Governo ha realizzato in questi 50 e più anni una messianica e perfetta dittatura militare in puro stile coloniale di cui l’apartheid è una delle conseguenze, non l’unica. 

Metti che l’indignato cittadino israeliano faccia 2 + 2 e, tramortito, si chieda se adesso stia per toccare a lui, ai suoi diritti, alla sua “unica democrazia del Medio Oriente”.

A questo punto il nostro cittadino ha due possibilità.

Primo. Riprendere in mano gli scritti di un saggio d’Israele, Yeshayau Leibowitz, residente a Gerusalemme dal 1935 e morto nel 1998, e leggere (1968!): «La corruzione tipica di ogni regime coloniale prenderà piede anche nello Stato d’Israele. Il regime dovrà dedicarsi da un lato alla repressione di un movimento di rivolta arabo, dall’altro all’acquisto di quisling [collaborazionisti] arabi. C’è da temere che anche l’esercito israeliano – finora esercito popolare – degeneri a causa della sua trasformazione in esercito d’occupazione, e che una volta governatori militari, i suoi ufficiali diventino tali e quali ai loro colleghi di altre nazionalità: ed ogni commento è superfluo. L’unica scelta che ci resta è dunque quella di andarcene – avendo a cuore le sorti del popolo ebraico e del suo Stato – dai territori abitati da un milione e duecento cinquantamila arabi, e ciò indipendentemente dal problema della pace». 

Se questa lettura non gli fosse sufficiente potrebbe addirittura risalire alle radici del sionismo non militare, al 1882 nientemeno, e leggere di ‘Ahad Ha-Am (“uno del popolo”, ovvero Asher Zvi Ginzberg, morto nel 1927): «Da schiavi nelle terre della diaspora tutt’un tratto si sono trovati con una libertà sconfinata e sfrenata quale è possibile trovare solo in un paese come la Turchia [la Palestina allora era ottomana]. Questo cambiamento repentino ha alimentato in loro le tendenze al dispotismo come sempre succede “allo schiavo che regna”: si comportano infatti cogli arabi con ostilità e crudeltà, invadono ingiustamente il campo altrui, li umiliano senza alcun motivo plausibile e per di più si vantano delle proprie azioni senza che nessuno intervenga per far cessare una tendenza così vergognosa e pericolosa»Il cittadino ne trae le logiche conseguenze e dà il via a un impegno di rigenerazione culturale e politica di Israele per farlo retrocedere dai bordi dell’abisso su cui si sta sporgendo.

Secondo. Ispirarsi ai metodi, spicci a dir poco, di eliminazione dei disturbatori del mito militar-sionista, come Jacob Israel De Haan, scrittore nato in Olanda, socialista, autore di uno dei primi romanzi omoerotici, che nel 1919 “sale” in Palestina e si unisce all’Agudat, organizzazione dell’ebraismo ortodosso, svolge consulenze giuridiche per i palestinesi e il 30 giugno 1924 viene ucciso da Awraham Tehomi, poi fondatore dell’Irgun (gruppo paramilitare sionista attivo dal 1931 al 1948), che nel 1985 dichiarerà in televisione: «Io ho fatto ciò che l’Haganah [struttura militare clandestina sionista che diventerà poi il nucleo del futuro esercito israeliano] aveva deciso che si doveva fare. Non ho rimorsi perché De Haan voleva distruggere la nostra idea di sionismo». 

Ciò significherebbe aprire uno scontro permanente interno a Israele (contro il governo fascisteggiante di Netanyahu e, dunque, degli israeliani tra loro) e vedersela con i rapporti di forza. Ma, a forza di usare sempre e solo le armi contro i palestinesi, che nel loro piccolo rispondono tale e quale, potrebbe anche succedere che questa maledetta abitudine si estenda ai conflitti intraisraeliani. Vale perciò la pena ricordare che il “padre” della destra sionista Ze’ev (Vladimir) Jabotinsky [morto nel 1940] affermava senza peli sulla lingua che la presenza ebraica era una forma necessaria di colonialismo e che tuttavia un futuro Stato di Israele avrebbe dovuto garantire uguali diritti ad ebrei e arabi e quando un primo ministro fosse stato ebreo il vice sarebbe stato arabo e viceversa. Non si può purtroppo dire che il sionismo militare abbia fatto il suo tempo. Ma è ora di riconoscere che ce ne sono anche altri di sionismi.


3 Comments on “Metti in Israele…”

  1. Il nocciolo della questione sionista sta in questo: come tutti i nazionalismi ottocenteschi di matrice romantica idealizzava un popolo inteso come una unità metafisica, superiore alla somma dei suoi membri, e gli assegnava il “diritto” ad un territorio. Un “blut und boden” come tanti altri. Italia, Belgio e Germania sono nati dalla stessa radice romantica. Passato il momento fondativo e a volte attraverso vicende storiche raccapriccianti di razzismo e persecuzioni, gli altri stati hanno compiuto la transizione da un nazionalismo etnico ad un nazionalismo civico-amministrativo: si è italiani o tedeschi perché così sta scritto sul passaporto, a prescindere da razze e religioni, come dice l’art. 3 della nostra Costituzione. Israele non ha compiuto questo passaggio ed è rimasto lo stato etnico di un popolo che non è definito in senso amministrativo, ma secondo un criterio etnico-religioso. L’apartheid e il colonialismo non possono essere superati se non si supera prima la natura etnica dello “stato degli Ebrei”.

    1. pienamente d’accordo, se ci riferiamo alla storia euroccidentale, ma già nei Balcani e in Russia il modello funziona diversamente. Così come in Turchia, India, Birmania…in parecchi Stati africani ecc. claudio canal

      1. Certamente, giusta osservazione. Ma il sionismo era nato in Europa e da una matrice culturale romantica, e Israele ambisce ad essere una democrazia occidentale.

Commenti

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