19 novembre 2020
claudio canal
Soggettività sporgenti in un paese fluttuante
C’era una
volta una Lady della Birmania, da noi amata e osannata al pari di Giovanna
d’Arco. Adesso c’è ancora e non c’è più. C’è ancora per una estesa maggioranza di
birmani. Non c’è più per il Resto del Mondo , o quasi. Il Gambia, per dire, ha accusato
la Birmania/Myanmar di genocidio davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja
che il 23 gennaio scorso ha stabilito che il governo dovrà prendere
provvedimenti per proteggere i rohingya. Stare meno sul generico vorrebbe dire
approfondire almeno due temi:
1. Il possente nazionalismo birmano buddhista,
identità predatrice ostile alle minoranze, che il colonialismo inglese,
inventando uno Stato di Birmania, ha rattrappito
in una frattura profonda tra una Birmania
vera e propria [Burma proper] e Aree
Escluse/di Frontiera.
2. La
brutalità del sovrastante apparato militare birmano, Tatmadaw, che dall’indipendenza del 1948 ad oggi ha praticato la
guerra civile perenne e non metaforica con le minoranze nazionali. Un tempo
ancora e sempre scandito dall’alternarsi di tregua e conflitto armato.
Scantonando
per il momento da questa impegnativa impresa, è giusto chiedersi se Aung San
Suu Kyi sia effettivamente l’unica Signora della Birmania. E’ una domanda che
si è posta anche Jennifer Rigby, giornalista britannica, che ha messo insieme
dodici interviste ad Altre Signore [The
Other Ladies of Myanmar, Iseas, Singapore, 2018] in un libro che non sa di
antropologia, di gender studies o di teoria politica, ma di preziosa indagine
su soggettività sporgenti in un paese fluttuante e sorprendente.
Avrebbe trovato
ampia testimonianza anche indagando il passato non remoto, per esempio: Ludu Daw Amar, una vita da dissidente
radicale, scrittrice e giornalista di rango, morta nel 2008 o Ma Ma Lay, scomparsa
nel 1982, splendore della letteratura birmana moderna, il cui capolavoro, La sposa birmana [disponibile in
italiano per le edizioni ObarraO, v. Il Manifesto, 9/XII/2009, riportato qui sotto] si
potrebbe definire un caposaldo del
postcolonialismo ben prima che questa più che ambigua etichetta venisse
inventata.
Nella
sua esplorazione Jennifer Rigby si confronta con la rifugiata, la pop star, la contadina,
la donna d’affari, la militante rohingya, l’attivista “etnica”, la politica,
l’ambientalista ecc. Vite diverse, molto, ma tutte con il corpo e la mente al
lavoro. Ketu Mala, per esempio, è una monaca buddhista e sarà meglio
precisare subito il significato di questa parola nel contesto birmano, dal
momento che le “monache” sono 60/70.000, i monaci più di mezzo milione. Da
questi numeri poco mistici si capisce da che parte si convoglia la forza anche
simbolica del buddhismo theravāda birmano. Istituito di malavoglia
dal Gautama Buddha l’ordine monastico femminile si è estinto nell’IX secolo e
rifondato recentemente solo in Sri Lanka. Sono interposte persone le thilashin, né laiche né monache, prive
dell’automatico prestigio della shanga
maschile. Ed è qui che Ketu Mala trova pane per i suoi denti,
il buddhismo reale, non quello sognante degli occidentali tutto armonia,
uguaglianza, tolleranza. Da una eternità in Birmania i maschi hanno una cosa
che le donne non hanno, il hpoun, un
potere carismatico a cui corrisponde cosmologicamente Il Re dell’Universo-Chakravartin. “Il problema vero, dice Ketu Mala, è che il patriarcato da noi
ha radici profonde”. Lo combatte con la sua fondazione socio educativa Scuola Dhamma poi Uppalava Institute e col vestirsi di scuro, come la corteccia degli
alberi di foresta, divergente dal delizioso rosa delle monache. Per le thilashin nessun sostegno statale
contrariamente all’incorporazione amministrativa quasi totale dei monasteri
maschili e poi offese e minacce dalle frange misogine e xenofobe del buddhismo
birmano, tra cui spicca il monaco U Wirathu [v. Il Manifesto, 17/06/2015 e qui], propugnatore di diritti incivili, appena
riemerso dalla latitanza. Ah Moon, pop star non più solo locale, di nazionalità
Kachin, figlia di un pastore battista, già leader di una band femminile, sa
bene cosa vuol dire vestire e svestire il corpo. Non mi interessa l’etichetta femminista. Mi interessa più farlo il
femminismo, che dirlo.
Colori sgargianti, musiche, danze,
canti, cibi, sguardi, ritmi dispari, travestimenti dei corpi, transessualità, preghiere,
bambini, sciamani, eros, invocazioni, tracollo della mascolinità, profumi, acconciature,
decine di migliaia di persone per sei giorni a festeggiare e glorificare se
stessi e i nat, anzi nat kadaw, spose dei nat. In un piccolo villaggio a fine
agosto. I nat, mi domandavo con il
cervello iperventilato alla ricerca della risposta: avanzi di angeli, spiriti malbenigni,
semidei regrediti, santi portatili, umani sovrumani, numi tutelari? Mitologia
senza frontiere, nat buddhisti,
induisti, musulmani. Improvvisamente poi la parola fa la sua miracolosa
apparizione, anche se sono sicuro che non è adeguata perché dedotta da un
vocabolario globalizzato e dedito all’appropriazione e alla normazione: queer, comodo rimpiazzo di fluttuante,
ondulante, increspato, duttile e così via. Ecco, a Taung Byone, paesetto che sta al centro, vedi cos’è la Birmania,
paese dal doppio, triplo fondo. Ma se glielo dici pubblicamente ti trovi
nell’ultima cella del famigerato carcere di Insein a Yangon, perché il paese è
anche tutto il contrario di queer,
parola tuttofare. Quest’anno ci ha pensato l’Oscuro, il Corona V., ad annullare
il pellegrinaggio, perché di questo rituale si tratta.
Non
è esattamente ciò che vuole dimostrare Lynette J. Chua, studiosa di Singapore,
con il suo The Politics of Love in
Myanmar. LGBT Mobilization and Human Rights as a Way of Life [Stanford Un.
Press, 2019], ma la constatazione è lampante. Impiega un intero capitolo per
spiegare che l’universale definizione LGBT non è così universale come pare a
noi. Che in loco altre parole vanno impiegate per rappresentare esperienze
sociali più plastiche e sfuggenti al nostro sguardo accalappiatore e
classificatore. Il culto dei nat,
dico io, non è un residuato folklorico, è il contraltare festoso e dolente alla
maledizione del tuo karma, se sei buddhista, che ti fa rinascere queer perché nelle vite passate hai
trasgredito le regole sessuali, alla condanna del tuo peccato “contro natura”,
se sei cristiano o musulmano, e non hai rispettato l’ordine eterosessuale.
L’ecumenico abbraccio religioso può stritolarti. Per questo l’autrice
ripercorre passo dopo passo il costituirsi di un movimento di liberazione dalla
discriminazione legale e sociale, seguendo protagonisti e protagoniste nella
loro trasformazione da penombre impaurite a gente che si rialza, non piange, fronteggia
il presente più che il futuro.
Anche se i diritti umani sono un’idea
occidentale, non c’è ragione per non adottarli se ci aiutano a migliorare le
nostre vite. Dopo tutto anche il nostro esercito fa uso di granate e
artiglieria inventata dall’Occidente invece delle armi tradizionali come la
lancia e il pugnale,
dice Tin Hla, attivista LGBT sulla cui storia è incentrato il libro.
Ascoltabile in podcast qui
Intrecci birmani tra sentimenti e lotta anticoloniale
LIBRI: JOURNAL-GYAW MA MA LAY, LA SPOSA BIRMANA, TRADUZIONE DI GIUSI VALENT, EDIZIONI OBARRAO, PP. 221, EURO 16
Anche solo a pronunciarli, i nomi di alcune scrittrici birmane contemporanee ci impongono di emettere suoni assai diversi da quelli cui siamo abituati: Ludu Daw Amar, Nu Nu Yi Inwa, Khin Khin Htoo... Esercizi di articolazione che suonano come un invito alla prudenza di fronte a una letteratura che ci è ignota nonostante la sua storia secolare. Una occasione viene ora fornita dalla prima traduzione italiana (in realtà dal francese) di uno dei testi più importanti della letteratura moderna birmana: Mone Ywa Mahu («E non per odio»), reso con La sposa birmana.
L'autrice, Journal-Gyaw Ma Ma Lay, nata nel '17, è morta nel 1982, dopo una intensissima vita letteraria, giornalistica ed editoriale. (E quel Journal-Gyaw , «Giornale Celebre», che precede il suo nome, ci ricorda come in Birmania i nomi delle persone siano creazioni ex novo e non riproduzione di linee parentali). Cominciata nel '36 con un articolo intitolato Diventare donne consapevoli la sua attività giornalistica non avrà sosta, nonostante le vessazioni subite dal potere politico, sia nella versione democratica sia in quella dittatoriale, con l'accusa di essere comunista e amica di comunisti, come Thein Pe Mynt, leader politico e scrittore. Negli anni '60 dopo una malattia e approfonditi studi Ma Ma Lay aprirà una clinica di medicina tradizionale birmana.
Scritto nei primi anni '50 e ambientato tra il '39 e il '42,
La sposa birmana è la storia del matrimonio di una ragazza con un uomo assimilato alla cultura coloniale inglese. Una lettura piana degli ambienti e dei caratteri rimanda all'allegoria nazionale: la ragazza, pur innamorata dell'uomo, viene ingabbiata dalle imposizioni «modernizzanti» del marito che vuole farla uscire dal mondo tradizionale e secondo lui arretrato in cui lei vive insieme al padre ammalato. Wai Wai-Mazzolino di fiori, la ragazza, andrebbe così interpretata come figura della Birmania che subisce il fascino del dominio coloniale, ma non ne sopporta le imposizioni, mentre U Saw Han, il marito, rappresenterebbe il colonialismo ammaliato dai suoi soggetti che tuttavia controlla e inflessibilmente comanda.
Posta così l'allegoria, il romanzo suona come già letto, incardinato in un modulo post-coloniale senza vie d'uscita. Ma diversi segnali suggeriscono come questa lettura sia insufficiente, troppo legata al nostro modo di rappresentarci le scritture che non aderiscono strettamente al canone occidentale. Il più inequivocabile degli indizi si rintraccia in una figura di sfondo, la madre di Wai Wai, che, allevati i figli, abbandona marito e famiglia per rispondere all'impulso spirituale che la porta a diventare monaca buddista. La sua dedizione al percorso di santificazione prevale sugli obblighi familiari e nel romanzo la sua figura si impone come fonte di consolazione e guida, più del fratello di Wai Wai, impegnato nella battaglia anticoloniale.
Per questo è forse opportuno invertire i piani: leggere l'analogia nazionale come metafora di un dramma individuale che vede in scena una donna e un uomo, il loro conflitto e le loro dinamiche, nelle quali U Saw Han, prima che icona coloniale, è un maschio che non sa riconoscere l'alterità costituita dalla giovane donna che ha sposato: «Lui aveva in testa una cosa sola: vivere per quella donna che adorava, facendo sì che non le mancasse nulla. Sgravandola di incarichi troppo onerosi per la sua età l'aveva resa libera». La resistenza di Wai Wai diventa così soprattutto resistenza contro la politica sessuale di dominazione tramite l'amore che il marito mette in atto.
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