Mi sono detto: può l’Umanità fare
a meno di questi miei scritti di cui pur godé/godette/ha goduto or sono
trent’anni? Mi son domandato e mi son risposto.
Questa divagazione era stata
ospitata sul n.18 de il Gambero Rosso
del 1988, quando non era ancora un testo liturgico del Capitalismo Gastrico, ma
un supplemento cultural-paesaggistico de Il
Manifesto.
Dedico questo minuto
ripescaggio a Severino Cesari, allora
responsabile del Domenicale del
quotidiano in questione, poi ideatore di Stile
Libero presso Einaudi, adesso scrittore in proprio che narra dei colori
della vita sotto l’ordine della sofferenza, tenendoci per mano.
Non è grave. Lo fanno tutti. Certe domeniche di primavera. Si
blinblana per paesi alla ricerca della trattoria giusta. Uno sguardo alla
chiesa e ai suoi arredi per ravvivarsi l’estetica. Bellezze come affreschi,
statue, arcate, capitelli ecc. Ferme, concluse, definite. Di vivente solo Dio,
se si sono udite delle voci sulla strada di Damasco, altrimenti neanche quello.
Invece.
Invece, si prenda una zona qualsiasi d’Italia, si contino i
paesi, per ciascuno una chiesa almeno, ma proprio come minimo, e su dieci
chiese otto possiedono un organo.
Non è grave. Lo fanno tutti. Entrano in chiesa e guardano
davanti. L’organo invece vive dietro, normalmente. Può vivere bene o vivere
male, magari pieno di acciacchi, deturpato dalla vecchiaia o dall’incuria degli
uomini o semplicemente da una certa bruttezza di famiglia, ma un suono, anche solo
uno non lo negherà mai. Un suono vivo attraversa l’aria, tocca vetrate e
candelabri e mette in vibrazione i timpani del vostro cervello. Se siete vivi.
Non era stato un bel risveglio quello della ratavuloira annidata tra le canne
dell’organo della ex parrocchiale s. Maria
Maddalena di Mombaruzzo. Sarà
dieci anni fa. Dovevano essere stati la grancassa e i campanelli a sgomentare
il pipistrello, ignaro di aver eletto un organo DOC come nido. Un Lingiardi del
1844, invecchiato bene per testimoniare il gusto di un’epoca quando le chiese
erano le sale da concerto dei poveri e dei contadini che non potevano andare all’opera e i Davide da Bergamo gli fornivano i surrogati. Una bella
macchina sonora che potrebbe intrecciarsi con le architetture di questo
multiforme paese del Monferrato.
Parto da Mombaruzzo per un giro armonico di natura
organologica e organolettica, ma potrei cominciare da qualsiasi altra parte e
seguire altri vagabondaggi. Ogni collina ha il suo paese e il resto che ci
interessa. Basta essere dotati di una buona cartina geografica e di voglia di
curiosare e curiosarsi.
Ci sono a Mombaruzzo palazzotti patrizi che non si sa bene
cosa nascondano, se storie contorte o il vuoto totale. C’è, ad ogni buon conto,
un’inquietudine storica che sparpaglia indizi: Dio punì giustamente i nostri peccati con fame, peste e guerra spopolando
il borgo recita una lapide del 1605 sulla facciata destra della stessa
chiesa del Lingiardi. Una seconda su via Venti Settembre ricorda altre
disgrazie pestifere. Sul campanile della parrocchiale s. Antonio Abate, goticizzata nel 1500, c’è un bassorilievo in cui
Adamo ed Eva sono colti in una specie di passo di danza.
Ancora più antica
dell’organo Lingiardi è la Rinomata
Fabbrica Amaretti la cui proprietaria, signorina Moriondo, ha negli occhi e
nella voce la stessa morbidezza dei suoi dolci che poi sono uno solo,
l’amaretto appunto, sconnesso non solo nel nome ma anche nella destinazione. Li
puoi gustare gli amaretti con una bottiglia di Moscato d’Asti sorseggiato alla
temperatura giusta fino al punto di convincerti a suonare la Canzon Prima detta La
Spiritata di Giovanni
Gabrieli sul Lingiardi che già
sappiamo e magari Born to run
di Springsteen senza che altre
lapidi di rimorso vengano poi murate sulle facciate. Ma il dolce amaretto lo
puoi anche assaporare, anzi lo devi, con quella dodecafonia che è il fritto
misto, così definito da Hegel: La sua essenza è immediatamente non essenza,
la sua realtà è immediatamente non-realtà [Fenomenologia dello Spirito,
vol.I, pag. 312] in quanto irraggiungibile sintesi fra vitello, manzo,
animelle, cervello, semolino, funghi, polpettine, salciccia, mele e amaretti
fritti della signorina Moriondo.
Se si è da queste parti nella più bella
stagione dell’anno – la pì bela stagiun
dl’agn – quella cioè in cui il ragno della vite canta – l’è quandi canta l’aragn-, durante la
vendemmia insomma, un sacchetto ben impacchettati ad uno ad uno e qualche
bottiglia di Brachetto ti portano fuori del paese, oltre la fabbrica di casse
da morto, alla cappella del presepio, tra i boschi, a meditare sulle
passacaglie della vita.
Da qui, seguendo la linea melodica delle colline, può
diramarsi una esplorazione ad libitum in cui ognuno va a cercarsi il suo
triangolo delle Bermude. Io alle volte risalgo a Montemagno dove c’è una delle più belle piazze d’Europa. Forse no.
O forse era un grignolino vero che avevo bevuto per strada. Forse neanche il
grignolino era tanto vero. Ma da queste parti dove tutto è obliquo è difficile
farsi un’idea della retta verità. Io ho una peronospora interna che mi attacca
il cervello quando non è lui: Ciűcia, Martin, ch’a l’è ‘l brod d’autin – Succhia Martino, ch’è brodo di
vigna, come dice un pensiero in lingua. Una lingua un
po’ carogna dove blinblanare –
bighellonare riproduce l’onomatopea metaforica dell’andatura dinoccolata
senza riguardi per i linguisti che parlano della concretezza dei dialetti.
La prospettiva della piazza con la processione delle case, la
scalinata che porta alla chiesa dell’Assunta con il suo protiro circolare, che,
come tutti sanno, è un animale che sta accovacciato davanti alle chiese, il
castello come fondale, consentirebbero esperimenti di musica collinare mai
tentati finora. L’organo ha un ripieno che arriva fino alla trigesima sesta
duplicata e che permetterebbe, a porta spalancate e opportunamente amplificato,
di suonare per tutta una notte quell’unico grappolo di note variamente ripetute
di Four Organs
di Steve Reich minimalista, con le
campane al posto delle prescritte marimbas; far risuonare le colline,
risvegliare le masche-streghe di terrifica potenza, e assistere ai loro balli
non prima di aver ritirato la biancheria dai balconi, se c’è la luna. Le
vecchiette oranti nei primi banchi della chiesa benedittus fruttus ventristuiesu non sarebbero sicuramente
d’accoro, solo un Pange lingua le
ammansirebbe.
Per rilassarsi dai terremoti evocati dalla musica debole ci
sarebbe in Montemagno il ristorante XYZ: Non so quanto si rilassino gli altri
pagando 70/80 mila lire a bocca, a me viene un po’ di agitazione, s-ciopa!- e non mi basta che lo chef
scodinzoli ad ogni portata. Ho
assaggiato però un ottimo Arneis, bianco dei Malabaila di Canelli che sarebbe
lo stesso casato del conte Canal von Malabaila che a Praga ospitava Mozart. Ma
questa è un’altra storia.
Più in là c’è in paese spoglio ma di grande vedute sul Mondo.
Niente di speciale, se non l’intelligenza di un parroco cultore di una teologia
del bello che non so se esista davvero. Il paese è Grana e non ho mai visto un organo incastonato in una cassa di così
severa bellezza. Una cosiddetta arte minore ha lavorato il legno di noce senza
infastidirlo, conservando la solennità dell’albero. Un Giacinto Bruna del 1838 su
cui ci si può sbizzarrire. Può andare sia la Toccata ottava di
durezze e ligature di Girolamo Frescobaldi sia Volumina di György Ligeti.
Gli iperpuristi dell’ogni organo la sua musica storceranno il
naso come i degustatori extra non permetteranno che la Barbera –la e non il Barbera- si accompagni ai dolci o alla frutta. Penso invece al
godimento di intingere uno spicchio di pesca nel bicchiere pieno.
La micro Camera delle
Meraviglie della parrocchia si accompagna bene con le tele di Caccia Guglielmo detto il Moncalvo della chiesa e della
confraternita, con il metafisico Crosio
secentista e con altre preziosità conservate e curate dall’arciprete. Un
arcivonservatore di beni culturali poco comune nel panorama italiano.
Se la vostra vita, come la mia, è un po’ barocca, piena di
volute e di scenografie in cui recitarsi, non dovrebbe mancarvi il vostro
angelo musicante personale. Il mio, quando andiamo tra Monferrato e Langhe,
sembra preso da improvvisa felicità come se i filari di viti fossero spartiti
su cui comporre musiche nuove. Nulla sfugge al suo divertimento armonico. Nella
chiesa di Calliano deliri di altri
angeli musicanti hanno goticizzato fino al paradosso l’organo e trasformato la
navata in un sogno psichedelico di luci e musiche elettriche. L’angelo di Frank Zappa non si troverebbe male. Si
trova benissimo il mio tra i capitelli romanici di san Lorenzo a Montiglio
che forse potrebbero cantare come
quelli di san Cugat a Barcellona. Un canto per interposta
figurazione dove il simbolo rimanda ad una nota e l’insieme ad un inno.
Suggerirei, come dicono i sommeliers invadenti, un Brahms d’annata, quella della sua morte, corale Herzliebster Jesu in cui se leggi al contrario i salti
di settima ai pedali ti sembra di sentire Coltrane. Se poi
ci si è lasciati andare alla Malvasia
anche le passioni gotiche della cappella trecentesca del castello diventano
parkeriane.
Il Basso
Monferrato si stempera con la collina di Torino e il finale di questo
capriccio organistico si avvia su una doppia cadenza. Dal bel vedere di Albugnano finalmente si potrà capire
chi si è, da dove si viene e dove si va, avendo alcuni punti fissi
all’orizzonte. Mantenersi svicc,
mantenersi svegli. Farsi aiutare, prima, durante e dopo il viteltoné –leggi vitello tonnato- dalla Freisa della trattoria XXX.
Sottoporsi al trattamento delle onde sonore del Giovanni Mentasti della
parrocchia, prezioso strumento del tutto autonomo, come spesso succede,
dall’estetica della chiesa. I pericoli in agguato sono due: primo, diventare
santi com’è normale su queste colline. San Giovanni Bosco, San Giuseppe
Cafasso, San Domenico avio e altri più di seconda classe.
Secondo, essere risucchiati dalle meraviglie assolute
dell’Abbazia di Vezzolano poco più in
là, nel verde, e perdere l’orientamento. Una notte, dalla vigna di fronte, ho
sognato il toccasana per me.
Un finale con cadenza d’inganno, aria con da capo, che non
finisce mai. Si può cominciare il pellegrinaggio dell’avvinazzamento
organistico dal fondo, da metà, andare in parallelo, in trasversale, oppure
stare fermi e non muoversi mai. Dipende da cosa e da chi si sta inseguendo. Di Bardassano ho in ghignun, in antipatia, il Serassi n.454 del 1829, di fatto un
capolavoro. Per amordidio, nessuna malinconia. Vicende mie. Punto e basta.
All’Osteria del campanile [che non c’è più, 2017] il
Moscatello fa dimenticare i sogni. Il castello, le case, la torre, i campi sono
quattro parti di un Recercar
frescobaldiano per organo con obligo di cantare
la quinta parte senza toccarla.
Sono io? Siete voi la quinta
parte? Girolamo Frescobaldi: Intendomi chi può che m’intend’io.
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