IL PANE E LA PACE
l'insurrezione armata dell'agosto1917 a Torino
per cantastorie, coro parlante, musica viva
un racconto storico in 10 quadri di claudio canal
con silvia a. genta laura manassero paola merlo
vesna scepanovic amalia piumatti paola pittavino
luca santavicca zarko vujovic ivana ferraris claudio grimaldi
lanciati al galoppo, i soldati con la sciabola sguainata nella destra in una selvaggia carica: non persi un attimo, con un gesto rapido mi aprii la camicia mostrando il petto nudo. Non vedevo più nulla. Poi con la coda dell’occhio vidi una specie di ombra che traversava la via venendomi vicino: era una ragazza molto giovane, si era liberata della sua camicetta mettendo poi il suo seno a nudo con lo stesso gesto che avevo fatto io, ma con più grazia, con più semplicità. Un urlo formidabile scoppiò dalla folla della barricata, dalle finestre aperte vennero incitamenti perché la cavalleria si fermasse. ”Viva la pace, abbasso la guerra. I soldati sbalorditi da tanto ardimento si fermarono ad un metro dai nostri petti nudi. Il silenzio era diventato ad un tratto sepolcrale, poi l’ufficiale dette ordine al suo squadrone di fare dietro fronte”.
Non è la scena di un film in bianco e nero con Amedeo Nazzari, Alida Valli e cavalli scalpitanti. E’ la cronaca scritta da di un militante socialista di vent’anni, tra i protagonisti dell’insurrezione dell’agosto 1917 a Torino, nel pieno della guerra: “Le cinque giornate del proletariato torinese” le definisce Antonio Gramsci su Il Grido del Popolo, che però griderà solo nelle cantine della questura, perché il settimanale è subito sequestrato.
“I carri blindati entravano in azione specialmente nel tratto del corso che va da Porta Palazzo a corso Principe Oddone. Improvvisamente un nugolo di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l’ordine era di andare a ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto; allora le donne si slanciarono, disarmate, all’assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi sulle mitragliatrici, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e di lacrime. Le tanks avanzavano lentamente. Le donne non le abbandonavano. Le tanks alfine dovettero arrestarsi.”
Noi sappiamo nome, cognome e fattezze dell’allora sindaco di Torino, dell’arcivescovo della città, del questore, del prefetto, del ministro degli interni, di tutte le gerarchie e gerarchiette. Conosciamo il nome di Antonio Gramsci e di altri dirigenti del Partito Socialista. Non sappiamo niente, né nome né volto delle donne che si arrampicano sui blindati, ci è del tutto ignota la ragazza che indossa il suo corpo come uno scudo nudo contro l’oscena carica dei soldati. Minerva e Marianna, in un gesto solo.
“Il medico capo di questo Municipio mi riferisce che i chaffeurs delle automobili per il trasporto dei feriti si rifiutano di eseguire il servizio e di intervenire sulle piazze e sulle vie, perché sono fatti segno egualmente agli spari dei soldati quantunque le automobili portino ben visibile il segno della Croce Rossa. Rivolgo viva preghiera all’Eccellenza Vostra affinché, nell’interesse generale, voglia compiacersi di impartire opportuni ordini, per evitare l’indicato gravissimo inconveniente” supplica con il cappello in mano il Sindaco di Torino, Leopoldo Usseglio, rivolgendosi al comandante della piazza, generale Galeazzo Sartirana. Generale di un Regio Esercito che spara sulla Croce Rossa.
E’ l’altra guerra. Non sta nel fango delle trincee, negli assalti alla baionetta, sui picchi dolomitici, non c’è Terzo Alpini sulla via il Monte Nero a conquistar.
Sta in un’altra musica: prendi il fucile e gettalo giù per terra, vogliam la pace e non vogliam più la guerra cantano le donne a squarciagola. Qualche volta viene cantata anche al fronte ed è subito plotone d’esecuzione.
La tradotta che parte da Torino, a Milano non si ferma più, ma la va diretta al Piave, cimitero della gioventù. E i quartieri operai in quella manciata di giorni a fine agosto del ’17 esplodono in una sommossa, moto, tumulto, rivolta, insurrezione. Chiamala come ti pare. I pochi storici che l’hanno studiata si sono sbizzarriti in catalogazioni a presa rapida. I viali con gli alberi abbattuti per costruire barricate, le mitragliatrici e i mortai issati sopra, i collegamenti tra insorti in bicicletta, di cui il gen. Sartirana vieterà prontamente la circolazione, i quarantuno morti accertati, i duecento feriti, le centinaia di arresti e successive condanne, dicono qualcosa della natura politica eversiva di quei giorni, del binomio non solo novecentesco di guerra e sfruttamento e della sua centralità. Parla chiaro anche lo smarrimento e, troppo spesso, la latitanza dei sindacalisti e dei dirigenti socialisti.
La narrazione teatrale tracciata dal gruppo bequadro di Torino ripropone la cronaca nuda e cruda degli eventi a salvaguardia della nostra sgangherata memoria. Guarda anche in faccia alcuni dei protagonisti e ne accompagna le diramazioni postinsurrezionali delle loro esistenze. Pietro Ferrero, ad esempio, operaio, giovane ed entusiasta animatore intellettuale, anarchico, segretario della Fiom, promotore dei consigli operai e, alla salita al potere dei fascisti, legato alla caviglia ad un camion e trucidato dagli squadristi di Piero Brandimarte, insieme ad altri dieci e forse più, in quella che è stata la strage di Torino del dicembre 1922. Oppure Maria Giudice, prima segretaria di Camera del Lavoro in Italia, collaboratrice di Gramsci, processata per i fatti di agosto, poi in Sicilia per opporsi alla mafia. A Catania dà alla luce una figlia, intelligente ed inquieta, che non avrà la gioia di vedere lo strepitoso successo internazionale del suo romanzo, L’arte della gioia. Goliarda Sapienza di nome.
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