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ERITREA ANTICOLONIALISMO


Questo articolo, bello o brutto che sia, ha il pregio di essere inedito. L'ho proposto a Il Manifesto, con cui collaboro da trent'anni. L'ha tenuto a bagnomaria per due mesi esatti. Decido di ritirarlo e proporlo a L'Indice, mensile di recensioni,  con cui collaboro da venti anni. Anche lì, silenzio per un mese. Al mio sollecito  ottengo questa risposta: 
 sì ho letto, intanto mancano tutti i dati del libro, persino l'editore. è del 2015? o 2016? quindi autore, titoli, pagine prezzo, anno di ed orig, da che lingua è tradotto, nome del traduttore, editore, luogo e anno di ed italiana.
Poi mi pare un pezzo un po' confuso, almeno per quanto riguarda il riferimento a Spivak che così appare molto generico. Le chiederei di rivederlo, di farne 5000 battute e di mettere dei riferimenti più specifici. grazie mille
Rispondo così:
Gentile ...,
 il mio articolo deve essere veramente confuso se non si capisce che presentavo un libro che non è mai  stato edito in Italia e non a caso, ma per una rimozione storica colossale che ha colpito anche un altro testo chiave cui faccio riferimento. Credo, ma posso sbagliare, che sia importante parlare anche dei libri assenti e del perché della loro assenza. E’ evidente che non posso fornire nessuna delle informazioni che mi chiede.
Su Spivak non intendevo sviluppare un’analisi del suo pensiero, ma sostenere che alla sua famosa domanda “Possono parlare i subalterni”  si può rispondere in diversi modi, ma prima bisogna ascoltarli i subalterni.

                          
























Il 15 maggio l'articolo viene pubblicato integralmente [con la bibliografia qui aggiunta] su Alfabeta 2 qui 


Quasi trent’anni fa Spivak si chiedeva “possono parlare i subalterni?” Aveva in mente soprattutto le subalterne. Coloro che sono sottoposti ad un dominio hanno la possibilità e la capacità di parlare apertamente di se stessi e della loro condizione? Cioè di agire attraverso segni divulgabili e interpretabili rompendo in questo modo la colata di parole pronunciate per definirli, ingabbiarli e battezzarli? Spivak dava una risposta articolata e in movimento. Storicamente i colonizzati hanno dovuto sgretolare il discorso del colonizzatore che non solo imponeva il suo potere di senso, ma stabiliva anche il vocabolario cui era costretto il colonizzato in un estenuante processo di rispecchiamento. E’ il lavoro rivoluzionario che ha squarciato la maschera del colonialismo e della sottomissione. I subalterni hanno parlato, ma spesso non hanno trovato nessuno all’ascolto.
          
































Sul colonialismo italiano adesso sappiamo molto, grazie a storici che non si sono fatti intimidire [Giorgio Rochat, Angelo Del Boca e, in seguito, altri]. Sappiamo cos’era la macchina colonizzatrice, ma siamo rimasti sordi e disinteressati alle voci colonizzate quasi a riaffermare che, nel bene o nel male, siamo sempre noi al centro, sempre noi il motore della storia. Inciampare in piazza Massaua, darci appuntamento in viale Derna o in piazza dei Cinquecento, abitare in via Dogali, non aggiunge niente alla nostra ignoranza consolidata dell’imperialismo italiano.
          Sono trascorsi più di ottant’anni e ancora non ci arriva alle orecchie Il mio solo tormento, poema composto e recitato da Rajab al-Manfi in un terribile campo di concentramento italiano in Libia nel 1931/32 [vedi Il Manifesto, 3 giugno 2015, La poesia nel frastuono del campo qui]. Ne sono passati novanta e non abbiamo mai sfogliato Una Storia -  Hade Zanta, un romanzo scritto nel 1927 da Gebreyesus Hailu in tigrino, una delle principali lingue della “colonia primigenia” italiana, l’Eritrea. Tra i primi, se non il primo romanzo africano in lingua non coloniale. Le autorità italiane naturalmente non permisero allora la sua pubblicazione anche se il romanzo avrà ampia circolazione come racconto orale. Verrà stampato ad Asmara solo nel 1953, quando gli italiani se ne erano ufficialmente andati da più di dieci anni.  Nel 1984 lo scrittore keniota Ngũgĩ Wa Thiong’o rivendicava per gli autori africani non il diritto bensì il dovere di esprimersi nelle lingue africane e non in quelle coloniali, se si voleva “decolonizzare la mente”. Hailu, che morirà nel 1993, la mente se l’era decolonizzata diversi decenni prima e le sue strategie testuali mostrano una chiara intenzione di educare i suoi conterranei a rigettare le premesse razziste del colonialismo italiano. Nel 2013 Hade Zanta viene tradotto in inglese da Ghirmai Negash per l’Ohio University Press con il titolo The Conscript.
La cronologia è pedante, ma scolpisce i tempi di una rimozione colossale.

             

Mercato di Asmara oggi































Quando il romanzo fu scritto il colonialismo italiano, “proletario” o “straccione” che fosse, era in piena espansione, stava cercando di domare col ferro e col fuoco la resistenza dei libici e all’orizzonte appariva la nuova preda, faccetta nera, bell’abissina, l’Etiopia. Non esisteva ancora il post-colonialismo, l’incontro/scontro coloniale era nel vivo, così come lo è oggi in Palestina. Era forte però il sentimento anticoloniale. Nel romanzo breve di Hailu, futuro prete cattolico, il colonizzato riflette su se stesso, lavora sulla propria autonomia, si slega dalla gabbia mentale in cui è costretto dal dispositivo coloniale. Tuquabo, il giovane protagonista, è un volontario che si arruola in un reggimento “indigeno” dell’esercito coloniale italiano. E’ un ascaro, parola oggi quasi svanita dal vocabolario corrente e seriamente in pericolo di essere attribuita a fastidiosi parassiti.  I soldati eritrei, inquadrati da ufficiali italiani, vengono portati in treno dall’altipiano a Massaua e di qui, via mare, in Libia, perché devono combattere contro i libici che si stanno opponendo armi in pugno all’occupazione italiana e al decantato Impero. Doveva essere un’affascinante avventura bellica per un ragazzo che veniva da uno sperduto villaggio eritreo ed invece si trasforma in un doloroso viaggio dentro se stesso e la propria gente. Vede morire in combattimento i compagni, li vede perdersi nel deserto. Per chi, poi? Per comandanti che in fondo li disprezzano, per consolidare un progetto coloniale di cui erano loro stessi vittime. Vede la fermezza dei resistenti libici e capisce che non sono loro i suoi veri nemici, che invece combattono una guerra che potrebbe anche essere la sua.   Tuquabo si rende conto di essere uno strumento in mano agli italiani da cui, al pari di tutti i colonizzati, è trattato come un bambino o come un animale. Sa anche di non poter risolvere tutto nell’opposizione oppressore/oppresso, che esiste un coinvolgimento, se non una vera e propria complicità, tra gli ascari eritrei e l’esercito coloniale, che ci sono zone di contatto tra apparati coloniali e soggetti colonizzati. Non esiste ancora né la parola né il concetto di post coloniale, Hailu preconizza entrambi nell’unico modo plausibile, con l’anticolonialismo, nella maniera che Pasolini chiamerà La grazia degli Eritrei. 


            





















Quasi ad un secolo di distanza noi abbiamo cominciato a capire, grazie in particolare ai contributi di Uoldelul Chelati Dirar, che il ruolo degli ascari è stato importante nell’immaginare una nazione eritrea e, dunque, a trasferire nel futuro la colonialità. A quel tempo Tuquabo lo percepiva confusamente e doveva rendere conto, prima di tutto a se stesso, della sofferenza che provava e che Gebreyesus Hailu riepiloga nell’ultima scena del romanzo: Tuquabo è tornato a casa dopo due anni di guerra italiana in Libia, nel frattempo la madre è morta e lui, sopraffatto dall’emozione, intona un lamento funebre, un melqes, in cui riconosce la sua responsabilità: se n’è andato per vanità, per spirito di avventura, per sete di eroismo virile, per stare dalla parte del più forte, ma d’ora in poi basta con l’Italia e i suoi tormenti che mi hanno allontanato dalla mia terra e dai genitori, basta con l’arruolamento e le medaglie italiane. Addio alle armi!


queste aggiunte bibliografiche stanno qui e non nell'articolo originale:
Gebreyesus Hailu, The Conscript, A Novel of Libya’s Anticolonial War, trad. Ghirmai Negash. introd. Laura Chrisma, Ohio University Press, 2012
ottenibile  qui
Tesi di laurea di Abraham Zere, Narration in Gebreyesus Hailu's The Conscript, 2014. leggibile qui
Ghirmai Negash, Native Intellectuals in the Conctat Zone: African Responses to Italian Colonialism in Tigrinya Literature, in Biography, 1, 2008,  leggibile  qui  
Uoldelul Chelati Dirar, Fedeli servitori della bandiera? Gli ascari eritrei tra colonialismo, anticolonialismo e nazionalismo (1935-1941), in Riccardo Bottoni, L'Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna 2008, leggibile qui
vedi anche: Colonialism and the Construction of National Identities: The Case of Eritrea, in Journal of Eastern African Studies, 1-2, 2007
From Warriors to Urban Dwellers. Ascari and the Military Factor in the Urban Development of Colonial Eritrea, in Cahiers d'études africaines, 3, 2004, leggibile  qui
Due significartive recensioni a The Conscript nel n. 1 del 2014 del Journal of Eritrean Studies, jerstudies@gmail.com
Molto interessante: Irma Taddia, Autobiografie Africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Milano, 1996,
Francesca Locatelli, "Oziosi, vagabondi e pregiudicati": Labor, Law, and Crime in Colonial Asmara, 1890-1941, in The International Journal of African Historical Studies, 2, 2007, leggibile qui
di Ngũgĩ Wa Thiong’o  è stato finalmente reso disponibile in italiano 
Decolonizzare la mente, trad. di Maria Teresa Carbone, Milano, 2015
All'inizio mi riferivo a  Gayatri Chakravorty Spivak e al suo Can the Subaltern Speak?, pubblicato nel 1988 in Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urbana. Oggi è disponibile Critica della Ragione Postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. Gabriele D'Ottavio [complimenti!], Roma, 2004, testo impegnativo e folgorante. 
Chi cercasse un diverso avvicinamento al colonialismo in Eritrea, legga di Erminia Dell'Oro i romanzi: Asmara Addio e L'abbandono. 

Commenti

  1. Claudio, grazie per i numerosi approfondimenti rispetto la colonizzazione Italiana nel Corno d'Africa e in Libia.
    E' quasi inconcepibile il modo di trattare questo tema dalla parte di editoria. Come anche stupisce la risposta confusa rispetto l'articolo che mi risulta dettagliato, ricco degli spunti da conoscere e da comprendere. Complesso, forse nel capire i concetti che sono necessari per il presente e per il futuro . Un tema doloroso e appassionante nello stesso tempo, che potrebbe insegnarci a individuare la lettura giusta della storia e della societa' contemporanea e nominare/capire tutti i cambiamenti complessi che stiamo attraversando(uno dei tanti il fenomeno migratorio). Qualche domanda su oggi che osiamo a fare, ha le radici profonde in quel epoca.
    Mi sentirei di aggiungere un altro saggio interessante e importante
    La politica della traduzione di G.C Spivak (92) pubblicato nel libro di M.Devi "Invisibili"
    "...lingua e potere sono infatti intimamente legati anche se per il canone occidentale la traduzione deve essere soprattutto scorrevole e di facile lettura.
    La traduzione deve sembrare naturale ,deve essere invisibile. All' invisibilità della traduzione corrisponde la cancellazione dell'alterità' della lingua e della cultura in traduzione."
    Ambra Pirri nella introduzione del libro parte dalle parole di Derrida, modificandole al femminile
    "Compatriote di tutti i paesi,poetesse-traduttrici rivoltatevi contro il patriottismo"

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