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ho pubblicato su L'INDICE di aprile 2014 una recensione al libro di Madeleine Thien
 
L'ECO DELLE CITTA' VUOTE
 
Fin dall’inizio ci vengono affidate molte vite che conserviamo dentro di noi. Dal primo all’ultimo mattino lottiamo per portarle con noi fino alla fine”: parole dall’ultima pagina di L’eco delle città vuote [perché rendere così l’originale Dogs at the Perimeter?]  di Madeleine Thien, scrittrice canadese nata a Vancouver nel 1974 da padre cino-malese e madre di Hong Kong.  E’ il suo quarto libro di narrativa. Ai precedenti è arriso un gran successo internazionale. Certezze è stato tradotto da Mondadori nel 2008.

Scrittura di grande eleganza. Lirica, perfin troppo: Il lampeggiante arancione del suo camion gira su di noi come una risata silenziosa. Ma è questione di gusti, si sa. Avvincente, comunque, anche là dove scarnifica le esistenze. Il canone internazionale è rispettato, anzi molto migliorato. Il romanzo globale ha qui una delle sue più alte incarnazioni rispetto ai soliti best sellers. Madeleine Thien non nasconde l’ambizione e il suo allestimento di materiali narrativi risponde ad una esigenza non solo di plot, di trama, ma soprattutto di senso. La spazialità è ampia: c’è un andirivieni tra Canada e Cambogia, tra il freddo  nordico e il caldo tropicale, tra una memoria fredda, da costruire cercandola fuori di sé, e una memoria calda, che sgorga dal di dentro dopo essersi sedimentata chissà come. La Cambogia è la Kampuchea comunista di Pol Pot, cioè un incubo, una specie di pus della storia che ha segnato una generazione lasciandola o morta o allibita. Due milioni, un milione e mezzo di scomparsi? L’autrice opta per la quantità più cospicua non curandosi dei risultati della storiografia più attenta. Ma questo è relativamente secondario. Ciò che conta è che L’eco delle città vuote si fa leggere come una testimonianza vera, come se fosse Se questo è un uomo. Temibile  potenza della letteratura e maestria di Madeleine Thien. Mal di memoria, come la definisce uno dei suoi personaggi, malattia della mente.


  Prima breve digressione: riguarda l’autrice e il suo paese, il Canada, con cui la  scrittrice deve per forza venire a patti.  Se sei canadese [americano, italiano…] e ti chiami Mordecai Richler e la tua famiglia di origine proviene da un shtetl polacco, se sei nato a Mumbai e ti chiami Rohinton Mistry, se sei nata a Vancouver e i tuoi genitori sono cinesi, vuol dire che non hai una storia locale, perciò tutti si attendono da te una molteplicità di sguardi, un intreccio quasi forzoso di memorie. Spaziare tra un qui e un è un obbligo cui è difficilissimo sottrarsi.
 
La seconda diramazione parla di noi lettori  e lettrici e assume pressappoco la forma di uno scioglilingua: Hak Chhay Hok, Khun Srun, Mey Son Sotheary, Samputho Nantarayao, Neng Kanitha, Kao Seyha. Sono i nomi di alcuni scrittori e scrittrici  della Cambogia, i primi due spazzati dall’onda khmer rossi, i restanti vissuti nel post regime. Perché non si trovano nelle nostre librerie? Solo perché è più difficile tradurre dal cambogiano [ma qualcuno si auto traduce in lingue europee]? Oppure questa faccenda del canone internazionale di scrittura  è più rilevante di quanto appare?

KAO SEIHA, NENG KANITHA, SAMPUTHO NANTARAYAO

    I protagonisti del romanzo sono Janie che diventa Mei, James che diventa Kvan, Sopham che diventa Rithy. Diventare un altro o un’altra, questo dileguarsi delle identità, non è un passatempo postmoderno, ma una durissima costrizione degli eventi, anche quando accade soltanto nella memoria. Janie non dimentica la Cambogia da cui è fuggita quando aveva undici anni, Hiroji, il collega  al centro di ricerche neurologiche, non può dimenticare il fratello rimasto là e va infatti a cercarlo.  Il crocevia delle vite sta in un luogo in cui, per decreto dall’alto dell’Ankgar, l’Organizzazione rivoluzionaria,  la memoria della vita precedente era un crimine, dove tutto doveva ripartire dall’Anno Zero e tutti diventare un popolo nuovo. Nel romanzo anche i quadri bassi dell’Organizzazione parlano come missionari invasati, dediti anima e corpo all’assoluto, portatori di una saggezza lugubre in cui le pietre della loro memoria erano state opportunamente sciacquate a lungo, pronti al diuturno sadismo. Hannah Arendt avrebbe fatto difficoltà a riconoscere in questi ragazzi nerovestiti l’Eichmann burocratico della banalità del male.
Guardiani khmer rossi a Tuol Sleng
Ricorda Madeleine Thien che, dopo l’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979, che segnò la fine del  regime di Pol Pot, per dieci lunghi anni alle Nazioni Unite il seggio cambogiano rimase quello dei khmer rossi: molti governi, compreso quello italiano, gli conservarono il loro riconoscimento. Segretario Generale era l’austriaco Kurt Waldheim, probabile responsabile di crimini di guerra di stampo nazista tra il 1940 e il ’45. Se venticinque anni fa fosse già stato scritto L’eco delle città vuote, entrando in Phnom Penh nell’ Ufficio di Sicurezza 21 (S-21), ex Scuola Superiore Tuol Sleng,  centrale della liquidazione degli uomini vecchi,   sarei stato meno sguarnito di fronte al brusio del sangue che scorreva in quelle stanze.
Madeleine Thien, L'ECO DELLE CITTA' VUOTE [Dog at the Perimeter],  Traduzione dall'inglese di Caterina Barboni,    88THAND2ND, Roma, 2013 [originale 2011], pagg. 230, € 16,00
 
sulla Cambogia, Pol Pot, ecc. vedi anche su questo blog il post del 21 novembre 2010: http://claudiocanal.blogspot.it/search/label/Pol%20Pot

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