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n. 12/ 28 settembre 2013
[pubblicato su Il Manifesto del 22 ottobre 2013]
[pubblicato su Il Manifesto del 22 ottobre 2013]
Si prendano
alcuni recenti titoli di libri sulla scuola,
La
fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, Perle ai porci.
Diario di un anno di cattedra. Da carogna, 5 in condotta. Tutto quello che
bisogna sapere sul disastro della scuola, Nessuna scuola mi consola, li si shakeri a dovere e si avrà il cocktail mentale che
oggi, a gran maggioranza, interpreta la scuola italiana. In sintesi: Io speriamo che me la cavo ovvero come sbellicarsi dalle risa tra invettiva e
sarcasmo. Prova a dire la supplente
e avvamperanno molti occhi maschili, galvanizzati da una siliconata della
trasmissione ciarpame condotta da Bonolis, mentre la generazione precedente rievocherà
nostalgicamente La supplente, appunto, e
poi, in sequenza, L’insegnante viene a casa, L’insegnante al mare con tutta la classe,
L’insegnante balla con tutta la classe, La ripetente fa l’occhietto al preside,
La liceale seduce i professori, Classe mista, L’insegnante di violoncello… Gloriosa serie di trash cinematografico che, ancora oggi,
googlelizzati come siamo, se per caso digiti l’insegnante o la supplente te
la trovi spiattellata e scaricabile da youtube.
Erano quelle commediacce l’affermazione guardona e scollacciata di una
realtà innegabile, la componente sessuale di ogni relazione educativa,
coniugata però con la volgarizzazione marionettistica, becera, cafona,
della scuola, degli studenti, degli insegnanti. Reggicalze e sberleffo.
Roberto
Sandrucci [La scuola sotto il genere della commedia.
Rappresentazioni della scuola pubblica italiana: studio su sette
casi, Edizioni ETS, Pisa, 2012, €
12,00] ha chiaro in mente che la comicità cinica applicata alla scuola non è
una pratica periferica o di sottobosco, bensì una vera strategia politica, una
montatura che, non sapendo dare un senso ai processi educativi, li mette in
caricatura. In questa grande operazione, che sta sotto i nostri occhi e non
vediamo, ci siamo un po’ tutti: i media, prima di tutto, molti insegnanti,
disorientati e demoralizzati, politici e amministratori che della scuola spesso
fanno terreno di scontro ideologico, la cosiddetta opinione pubblica che
vagola tra indifferenza e
astio. Sandrucci prende
spunto da un best seller di più di vent’anni fa, Io speriamo che me la cavo di Marcello D’Orta, oltre un milione di copie, traduzioni, messe
in scena, due sequel. Un’orgia di bambinate che fanno ridere e commuovono.
Nella realtà un collage di frasi accuratamente montate dal maestro D’Orta.
L’esito finale è la scuola come luogo di spasso, i bambini gli sgarruppati nel fraseggio e nel pensiero
e gli insegnanti spettatori del caos tragicomico. Nei capitoli seguenti Sandrucci si dedica, con
profondità e un certo sgomento, al primo libro “scolastico” di Paola
Mastrocola, La scuola narrata al mio cane, a Nessuna scuola mi consola
di Chiara Valerio, al telefilm I ragazzi della 3aC di Claudio Risi, ai due libri di Gianmario Perboni Perle ai porci e Perle, al film Classe mista 3aA di Federico Moccia, e, per finire molto in basso, a 5 in condotta di Mario Giordano.
L’autore considera non a torto la scuola
sotto il genere della commedia come l’espediente per
mettere Ko la scuola attraverso l’irrisione e il grottesco. Stiamo
naturalmente parlando della scuola pubblica, perché quella privata sembra
non a caso star fuori dalla scena. Quasi non si capacita, Sandrucci, della
pochezza dei testi che esamina, della loro decostruzione plebea della scuola,
pur non nascondendosi i buchi neri che la abitano, le sofferenze irrisolte che
vi circolano, le inadempienze che spesso la caratterizzano. Proprio per questo
non si accontenta della caricatura a presa rapida che viene pompata nell’immaginario
dei lettori/spettatori e pretende, inutilmente, un’analisi della relazione
educativa così come si è venuta costituendo e trasformando nella società
italiana. Invece trova livore, sghignazzo e pubblica esecuzione dei nemici con
la N maiuscola: il ’68, don Milani e Gianni
Rodari.
Per finire nella
sarabanda in cui tutti si lagnano di una scuola che non è abbastanza
adeguata ai tempi, che è troppo adeguata ai tempi, che non sa prendere
iniziative, che prende troppe iniziative, che è distante dagli studenti, che è
troppo vicina agli studenti, troppo moderna, troppo poco moderna, che
dovrebbe essere più ordinata, ma anche più creativa, più severa e più
comprensiva, che dovrebbe celebrare la cultura, senza strafare, perché con
quella non si mangia, dare speranza e riscatto alle nuove generazioni, senza
però creare troppe illusioni, infarcirsi di internet, ma con giudizio perché
non si sa mai. E via così.
Pur
nella severità del giudizio, Sandrucci, mentre, per esempio, analizza la bella e pungente
scrittura di Paola Mastrocola, si fa troppo buono e noi capiamo che
vorrebbe averla alleata in un progetto di innovazione e avvaloramento della
scuola. Ma di fronte a chi scrive, con finta ingenuità, “bisognerebbe insegnare e basta…” “una volta ci si laureava e basta…”, si arrende, perché sa che nella
scuola ci sono parecchie mastrocole rancorose che vorrebbero ripristinare un
passato mai esistito in cui la professoressa possa finalmente decantare il suo
amato Torquato Tasso ad una classe di adolescenti in estasi pronti l’indomani a
ripetere in commossi accenti le parole pronunciate dalla cattedra.
Il problema vero è che ha ragione Berlusconi: nella scuola italiana ci sono
ancora troppi comunisti, soprattutto comuniste, che non si arrendono alla
mercificazione del sapere e all’aziendalismo burocratico, che sanno ascoltare
gli allievi e perciò si fanno ascoltare, che hanno un’idea di cultura
come crescita e promozione personale e collettiva, all’asilo nido come in terza
liceo, che sanno conferire dignità anche a chi non l’abbia mai vissuta,
che non si prostrano alle Goldman Sachs nostrane che spacciano rating meritocratici a più non posso
sulle scuole di ogni ordine e grado, che sanno che ogni educazione non conformista
è rottura di un ordine esistente. Per questo va forte la gogna, la discesa agli
inferi della scuola e l’intimidazione diretta, se si tratta di espugnare
questi ultimi fortini di resistenza comunistoide.
La pedagogia accademica sembra, con rare
eccezioni, abbastanza estranea a questo conflitto presa com’è a parlare
di se stessa e all’autopromozione per garantirsi un posto al sole tra le altre
discipline. Le 160 pagine di Sandrucci aprono un capitolo molto interessante di pedagogia dagli
occhi aperti tutta da inventare.
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