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di aprile 2013
una scheda del libro Il cuore di tenebra dell’India. Inferno sotto il miracolo, di Marina Forti, Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. 164, € 16,00
di aprile 2013
una scheda del libro Il cuore di tenebra dell’India. Inferno sotto il miracolo, di Marina Forti, Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. 164, € 16,00
L’India è una macchina immaginifica tra le più produttive: le caste, Gandhi, le
vacche sacre, Bollywood, Visnù, i guru, l’informatica indiana, il paese
emergente, la più grande democrazia del mondo,
lo yoga, il sanscrito, la tigre del Bengala, il Kamasutra, i raga… Ce
n’è per tutti i gusti. Per questo è difficile dissolvere la nebbia che ci
avvolge quando ne parliamo.
Marina Forti con questo libro invece ci riesce
benissimo ed impiega 164 pagine per presentarci un’India fuori dalla nostra portata
immaginativa. Lo fa soprattutto dando la parola a donne e uomini che vivono in
una certa area del Paese nota come tribal
belt o anche mineral belt. La
semplice sovrapposizione delle due belts, tribal
e mineral, già spiega molte cose. Si
tratta di popolazioni adivasi,
“abitanti originari”, volgarmente definite tribali,
novanta milioni di persone, l’8,6 per cento della popolazione, che abitano zone ricche di giacimenti minerari.
Secondo il canone dominante se sei tribal
sei per definizione ignorante, primitivo, superstizioso e pericoloso, anche se
spesso si tratta di società egualitarie e senza gerarchie di genere.
Ma c’è lo “sviluppo” e la “crescita” da sostenere, il
PIL da far marciare - 6/7% di incremento annuo - se l’India vuole restare tra i
“paesi emergenti”, i famosi Brics
[ricordiamoli: Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica] e dettare, domani, le leggi del capitalismo globale. Le miniere
vanno sfruttate ad ogni costo. Per farlo bisogna requisire terre, land grab la chiamano, sfollare e spostare
villaggi, recintare territori, installare grandi impianti industriali, deviare
fiumi, sezionare montagne, diffondere la corruzione, e tutto ciò che è previsto
da quella mega macchina sociale che Marx definiva “accumulazione originaria”
cioè l’ espropriazione mercantile o coatta di ogni bene comune. Ce lo
chiede lo sviluppo, è il mantra. Per i sordi
a questo richiamo scatterà la guerra sporca, salwa judun, misto di interventi di esercito, polizia,
paramilitari, già visti all’opera in altre parti del mondo in questa identica
formazione.
Tutto quadra. Se non fosse che di mezzo ci stanno i naxaliti che, nonostante il nome
esoterico, praticano una vecchio-nuova guerra di popolo di stampo maoista
contro l’appropriazione forzata delle terre e delle vite umane che vi abitano.
Una terminologia vintage che tuttavia riferisce di un conflitto di
ampie proporzioni e di una concreta alternativa di crescita umana e sociale.
Nel paese che ha inventato i subaltern
studies, Marina Forti va dai subalterni, ne ascolta le ragioni, dà voce
alle paure e alle speranze, imposta una narrazione calda, se così si può dire. Non sta a metà
strada tra documentazione e fiction,
come è diventato di moda, ma registra
con gli occhi, con le orecchie e con l’intelligenza del cuore le aspettative e i contrasti, i programmi,
le forme organizzative, le risposte isteriche e qualche volta atroci del
potere. La gestione delle fonti è
rigorosa tanto quanto la sua soggettività
è intonata al mondo di vita che esplora, senza soverchiare e senza
nascondersi.
Noi che viviamo in una tribal bent molto particolare non possiamo che essere rinfrancati
dal comune domicilio del mondo che questa lettura “indiana” ci porta a conoscere.
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