articolo pubblicato su Il Manifesto di giovedì 23 agosto 2012
Una plurisecolare
macchina industriale
Pochi decenni fa evocare schiavitù, tratta o pirateria
avrebbe voluto dire guardare indietro, secoli indietro. Fenomeni da conoscere
sfogliando libri di storia. Oggi stanno nei titoli dei quotidiani e nei
reportages televisivi. Sembravano fenomeni incompatibili con i nostri tempi, invece te li trovi sotto casa nella forma di nuovi schiavi o di persone trafficate. Al Dramma della tratta degli esseri umani era dedicato il penultimo numero di Concilium, rivista di teologia, non di politica internazionale
o di sociologia. A riconoscere la
modernità dello schiavismo avevano una decina di anni fa cominciato a ragionare
e a darne documentazione Romano Alquati, Pino Arlacchi e Kevin Bales.
Che con nuova schiavitù non si sia di fronte ad
una semplice metafora per impressionare i lettori lo si deduce dal fatto che
basterebbe sostituirla con lavori forzati
o asservimento e tutto ci
tornerebbe più chiaro. Il panorama mondiale dell’assoggettamento, del lavoro
coatto, della privazione di diritti e di tutela, della mercificazione degli
esseri umani, è sotto gli occhi di quasi tutti. E quasi tutti ne proviamo vergogna, che è già una rivoluzione, suggeriva
Marx, il quale, concentrandosi sull’Europa dei suoi tempi, dell’Inghilterra
specialmente, ne deduceva forse una linearità un po’ troppo nitida, prima lo
schiavo poi il servo della gleba che diventa per forza salariato, una bestia ridotta ai più elementari bisogni
della vita. Ad essere precisi, Marx parlava di schiavitù salariata, ma il resto della popolazione mondiale era
ancora costituito da schiavi e schiave in senso proprio o da contadini
asserviti. In senso proprio? A prima vista schiavo
e schiavismo ci appaiono come nozioni
lampanti, univoche e universali, smentite però dalle trasformazioni che hanno
subito nel tempo e dagli adattamenti realizzati in contesti sociali e
geografici molto diversi. I confini tra schiavitù e i molteplici profili
dell’assoggettamento sono fluidi e anche ai nostri giorni si intersecano tra di
loro, un presente strapieno di passato, dove la schiavitù usa e getta, Rosarno insegna, sembra farla da padrone, dove il
traffico di esseri umani torna in auge come forma imperante di circolazione
della manodopera, dove i servi da debito (già sentita questa parola?) ammontano
a milioni, dove donne e bambini stanno in prima fila come prelibati oggetti di
asservimento.
Lo storico Gabriele Turi nel suo bel lavoro, Schiavi in un mondo libero. Storia
dell’emancipazione dall’età moderna ad oggi [Laterza, Roma-Bari, 2012, pp.
388, €24,00] discute sì di definizioni e significati, ma soprattutto ci
racconta di navi stracariche di beni
mobili umani, di donne schiavizzate per produrre nuovi schiavi, di
carovaniere con merce umana al seguito, di élites africane, asiatiche, europee
interessate a far fruttare i corpi incatenati, del prolungarsi di questa forma
mercantile nella nostra contemporaneità e di come la mercanzia umana abbia resistito e contrastato la propria schiavizzazione.
Il panorama è ben più ampio e approfondito di quanto il sottotitolo suggerisca.
La stessa abolizione della schiavitù è
ricostruita dando conto delle sue ambiguità, delle nuove cupidigie che la alimentano e dei colpi
di spugna sul passato. “Siamo stati bravissimi: abbiamo abolito la schiavitù”
si autosantificano ancora adesso nelle ricorrenze celebrative gli Stati
imperialisti che della tratta degli africani hanno fatto uno dei loro più
redditizi investimenti. Torna qui dirompente il binomio ricerca storica-memoria collettiva che attraversa e in certi momenti
dilania le nostre società.
In Francia, dove è molto forte la tentazione di
stabilire per legge le verità storiche, l’uscita nel 2004 del libro di Olivier Pétré-Grenouilleau,
La tratta degli schiavi. Saggio di storia
globale [traduzione di Rinaldo Falcioni, Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 472,
€ 14,00] avveniva in un momento di
accesa discussione pubblica avviata dalla legge Taubira in cui si affermava il carattere di crimine contro l’umanità della tratta dei neri e dello schiavismo.
L’avrebbero ancora di più accesa alcune infelici dichiarazioni dell’autore.
Purtroppo nell’edizione italiana questo contesto non è ricostruito e il titolo
stesso da plurale che era, le tratte
degli schiavi, è stato ridotto al singolare, la tratta. Per paura di sconcertare uno sprovveduto lettore
italiano? Le tratte negriere sono state infatti più di una: quella atlantica
verso le colonie europee delle Americhe, quella transahariana interafricana e
quella orientale verso l’Asia, ciascuna con caratteristiche proprie e durate diverse.
La politicizzazione di questo inequivocabile dato
storico si trasforma spesso nella compilazione
di graduatorie di iniquità e di colpa da rinfacciarsi reciprocamente. La
diretta e interessata partecipazione dei gruppi di potere africani alla schiavizzazione
e alle tratte negriere non sminuisce di una virgola la macchina “industriale”
messa in moto dalle élites europee e americane per procurarsi manodopera a
bassissimo costo in favore dell’esordiente capitalismo europeo. La quale
manodopera schiavizzata ha saputo a Nord come a Sud delle Americhe ricrearsi un
contesto nuovo, producendo una cultura afroamericana del tutto inedita, in
qualche caso preminente, come nelle isole Caraibiche, in altri, Stati Uniti,
Brasile ecc., fortemente competitiva e critica verso quella bianca o creola. In
contrasto con la nostra credenza a considerare gli schiavizzati come vittime
passive e deculturate. E’ John Thornton in L’Africa
e gli africani nella formazione del mondo atlantico. 1400-1800 [traduzione
di Luca Cobbe, Il Mulino, Bologna, 2010,
pp. 504, € 38,00] a documentare questo processo innovativo. Il ruolo delle
élites africane nella produzione di schiavi e nelle tratte tende ad oscurarsi
nei battibecchi tra politica e memoria, come da tempo ribadisce lo storico
senegalese Ibrahima Thioub, quasi che la complicità dei sistemi locali di
dominazione non possa essere nominata e gli africani non abbiano un proprio statuto
storico e possano essere guardati solo come martiri inerti.
Carpaccio, Miracolo della reliquia della Croce a Rialto, circa 1496 |
Il discorso schiavistico non dà scampo alle nostre
disposizioni mentali. Non consente neutralità. Forse per questa ragione la
vulgata che ci riguarda recita che, dopo
quella del mondo antico, la schiavitù sia stata scacciata dall’Europa per
merito del Cristianesimo, salvo poi precipitare alle soglie dell’età moderna
nella barbarie africana e trarne vantaggio. Questa favola accomodante non regge
alla ricerca storica che riconosce nel commercio degli schiavi una costante dell’Europa medievale e moderna,
ad ogni latitudine e con la benedizione dell’ideologia religiosa fautrice
dell’idea che ci fossero popoli
“selvaggi” destinati per natura alla
schiavitù. E’ stato un traffico in bianco e nero: i mercanti veneziani e
genovesi sono stati molto aggressivi nella compravendita di schiavi slavi e affini
[cioè sclavi, schiavi come suggerisce
una etimologia non peregrina], per lo più donne destinate ad ogni tipo
immaginabile di prestazione domestica. Tra paesi islamici e cristianità
mediterranea è durata fino al Settecento la rincorsa a scambiarsi i ruoli di
predoni e prede. In Sicilia come a Bologna esisteva l’istituto della Redenzione dei Cattivi per il riscatto
dei cristiani catturati e il Registro
delle prede, che non ha bisogno di spiegazioni. I lavori pionieristici e
fondativi di Salvatore Bono hanno dato il via in Italia ad una scuola di studi
che ha azzerato le pretese di estraneità della penisola al traffico di bestiame
umano. Quasi niente è però transitato nella coscienza collettiva.
Responsabilità della scuola, della nostra generosa accondiscendenza verso noi
stessi? Memoria congestionata? Conoscere meglio le passate pratiche di
asservimento ci renderebbe meno autistici verso il variopinto paesaggio umano delle
nostre città e campagne. La tratta negriera prima di dirigersi verso le
Americhe si è agevolmente mossa tra Spagna e Italia, manovrata da broker di
alto livello come il fiorentino Bartolomeo Marchionni che da Lisbona dirigeva
lo smercio dei corpi, soprattutto femminili. Anche gli scolari delle elementari
si farebbero qualche domanda in più se qualcuno gli mettesse in video i
gondolieri africani delle tele di Carpaccio.
MICRO SCHEDA
Una bibliografia sterminata. I nomi da seguire
sono, tra gli altri, il nominato Ibrahima Thioub [ vedi l'intervista, in italiano su Passato e Presente, 2004, n. 64 Letture africane della schiavitù e della tratta atlantica ],
Salah Trabelsi [ vedi il suo libro di cui è curatore: Les esclavages en Méditerranée, 2012, Collection de la Casa de Velázquez ]
e António de Almeida Mendes [ vedi qui la sua bibliografia, .]
Salah Trabelsi [ vedi il suo libro di cui è curatore: Les esclavages en Méditerranée, 2012, Collection de la Casa de Velázquez ]
e António de Almeida Mendes [ vedi qui la sua bibliografia, .]
Per gli accenni svolti nel testo : Diego Fusaro, Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno
studio sul lato cattivo della storia, Il Prato, Saonara [Padova], 2007, pp.
418, € 15,00.
Un’ottima sintesi della tratta atlantica [nonostante il titolo più onnicomprensivo] :
Lisa A. Lindsay, Il commercio degli
schiavi, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 186, € 13,70.
Fabio Viti, Schiavi,
servi e dipendenti. Antropologia delle forme di dipendenza personale in Africa, R.Cortina, Milano, 2007, pp. 298, €
24,00: dalle vecchie alle nuove schiavitù, e Schiavitù, lavoro e migrazioni in Africa Occidentale, Il Politico. Rivista italiana di scienze politiche, 2010, 3.
Fascicolo
monografico di Quaderni storici, n.
2, 2001: La schiavitù nel Mediterraneo,
a cura di Giovanna Fiume.
Di Salvatore
Bono, almeno: Un altro Mediterraneo. Una storia comune fra scontri e integrazioni,
Salerno ed., Roma, 2008, pp.356, € 21,00.
Disponibile in rete un interessante studio collettivo a cura di Pierangelo Castagneto: A sola riserva della perduta libertà. La schiavitù nel Mediterraneo nella seconda metà del Settecento, RiMe, Rivista dell'Istituto di Storia dell'Europa Mediterranea, 1- 2008
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