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TRIPOLI BEL SUOL D'AMORE 2


                                                        

TRIPOLI 
BEL SUOL D'AMORE 
2

Questi tipi fino a ieri si amavano. Regali e business. Sarkò il Guerriero aveva da poco rifilato al Beduino, per soli 10 miliardi di €, 12 elicotteri da combattimento «Tigre» e altri di tipo Super Puma, una dozzina di Mirage e Rafale, due corvette Gowind, 26 Airbus e, come dessert, «un reattore nucleare», come ha detto al «Figaro» Seif al-Islam Gheddafi, figlio della Guida. Adesso glieli bombarda. Sarà che si avvicinano le elezioni? Dello "statista" italiano, meglio tacere.
1801                         1911                             2011
Per gli amanti degli anniversari e della numerologia ecco qui alcune ricorrenze.
1801 
  From the halls of Montezuma, to the shores of Tripoli
We fight our country's battles in the air, on land and sea
Dai saloni di Montezuma
Alle spiagge di Tripoli
Combattiam le patrie guerre
In terra, mare e ciel

Incendio della fregata Philadelphia nel porto di Tripoli
Olio di Edward Moran (1829-1901)
Questo è il primo verso dell'Inno dei Marines degli Stati Uniti che ricorda, appunto, come nel 1801 la marina degli Stati Uniti fu inviata con una flotta per contrastare la guerra di corsa praticata dagli Stati cosiddetti Barbareschi, tra cui la Libia di allora, governata dalla dinastia Karamanli, ufficialmente tributaria del sultano ottomano. Questa primo intervento militare all'estero fu voluto dal presidente Thomas Jefferson e si concluse nel 1805, non prima di aver bombardato Tripoli nell'agosto del 1804 e occupato Derna.   


Sulle guerre di corsa nel Mediterraneo 
vanno visti i libri di Salvatore Bono, in particolare,

parzialmente leggibile in Google libri:  
Storia e fonti occidentali sulla Libia, 1510-1911
L'Erma di Bretschneider, 1982.


Di fonte americana, sempre su Google libri,  specialmente 
il capitolo 3°, completo,  

Lybia  and the United States: Two Centuries of Strife,  

di St John, Ronald Bruce, University  of Pennsylvania Press, 2002.

il capitano Stephen Decatur [1779-1820] all'arrembaggio di una cannoniera tripolina.
Quadro di Dennis Malon Carter [1818-1881]



1911



Al Teatro Balbo di Torino grande successo di Gea della Garisenda  , che, vestita solo della bandiera italiana, canta A Tripoli! più nota, anche in seguito, come Tripoli bel suol d'amore,  come ci racconta la cronaca de La Stampa  del 30 settembre 1011. Il rapporto tra corpo femminile e colonialismo ha qui una sua ulteriore conferma.
Il giorno prima il governo italiano, presidente del consiglio Giovanni Giolitti,  aveva iniziato le operazioni belliche contro la Sublime Porta ovvero l'Impero Ottomano che governava, seppure molto "a distanza", la Tripolitania e la Cirenaica. Cominciano i bombardamenti delle città costiere, lo sbarco dei bersaglieri, e la resistenza degli arabi, dei berberi e dei soldati regolari turchi. Il 23 ottobre la prima sconfitta italiana a Sciara Sciat, in cui vengono trucidati 21 ufficiali e 482 uomini di truppa. Segue la vendetta italiana con le rappresaglie, forse 4000 indiscriminatamente uccisi e altrettanti deportati alle isole Tremiti, Ustica, Favignana, Ponza ecc. 


Il regno della forca e dei massacri è cominciato e si prolungherà e intensificherà nei decenni successivi, culminando nel 1931 con la cattura e l'impiccagione del capo della resistenza libica, Omar Al-Mukhtar  [su cui ricordo lo studio ancora valido Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della LIbia, di E. Santarelli, G.Rochat, R. Rainero, L. Goglia, Marzorati, Milano, 1981].                           

  
Così declamava il mite Giovanni Pascoli nel discorso al teatro di Barga del 25 novembre 1911:
"La grande Proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo tempo...Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d'Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva: Carcamanos! Gringos! Cingali! Degos! Erano diventati un po' come i negri in America, questi connazionali di chi la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e dell'umanità, e si linciavano...Là [in Cirenaica e Tripolitania] i lavoratori saranno, non l'opre malpagate mal pregiate mal nomate degli stranieri, ma, nel senso più altro e forte della parola, agricoltori sul suo [sottolineatura di Pascoli],  sul terreno della patria..."


Nell'anno centenario dall'occupazione della Libia ci sta un primato tutto italiano, oggi rinverdito dai caccia italiani che bombardano Tripoli: vale la pena di leggere la cronaca che Luigi Barzini fece da Tripoli sul Corriere della sera del 2 novembre 1911:
Per la prima volta al mondo un aeroplano da guerra ha attaccato il nemico.

Dall’Italia erano giunte granate a mano da lanciarsi dall’alto. Esse sono di tipo studiato per l’aviazione della marina, e sono costruite a Spezia. Consistono in un involucro sferico d’acciaio poco più grande di un’arancio, pieno di alto esplosivo. Una pallina di ferro lasciata libera nello interno, al momento opportuno urta, quando la bomba tocca il suolo, contro il fulminante, provocando l’esplosione. Questa pallina è tenuta ferma da una molla che si deve estrarre all’istante del getto, e la pressione della mano stringe il piccolo cerchio, che mantiene la pallina immobile, nel breve attimo che passa fra l’estrazione della molla e il lancio.Due esperienze fatte ieri sulla riva del mare erano perfettamente riuscite; l’accensione aveva funzionato esattamente e le esplosioni avevano crivellato di schegge un muro.Stamane il tenente della brigata specialisti Gavotti, preso il suo astuccio da toilette, vi ha deposto quattro granate. Fissato l’astuccio chiuso con una cinghia al fuselage del suo Etrich, ha messo una bomba in una tasca, in un altra tasca gli inneschi fulminanti ed in un’altra ancora i tappi. Quindi ha preso il volo verso le 8 dirigendosi sull’oasi Ain-Zara, a circa 8 chilometri a sud est degli avamposti, dove sapeva che si trovava un nucleo di nemici.Infatti su bordo dell’oasi ha visto due masse di arabi, di circa 1500 persone distese col fronte al nord: nell’interno dell’oasi vi erano altre genti e armenti. Roteando a 700 metri d’altezza, il tenente Gavotti ha preso la bomba e, messala tra le ginocchia, vi innestava un fulminante e vi fissava il tappo. Doveva lavorare con una sola mano perché coll’altra doveva manovrare.Passando sopra un gruppo ha strappato la molla coi denti e ha lanciato la bomba al disopra dell’ala destra. Per due secondi, attraverso il fondo di celluloide dell’aeroplano ha seguito la caduta della granata; poi l’ha perduta di vista. Fatto un “virage”, ha scorto una grande nuvola nera e fuga di gente. Ha ripetuto l’esperienza sopra altri gruppi, ma ne ignora l’esito perché la velocità dell’aeroplano lo portava subito fuori del bersaglio e il rombo delle esplosioni non era udibile, soffocato dallo strepitio del motore.Bisognerebbe andare con due aeroplani; con quello avanti lanciare le bombe e coll’altro di dietro osservare. Ma dallo sparpagliamento del primo gruppo è lecito dedurre un grande effetto, che potrebbe avere anche una decisiva influenza morale durante la battaglia.
Più cialtronesco, ma altrettanto istruttivo, l'articolo sul "Giornale d'Italia" del 2 novembre:
Le granate sterminatrici
I turchi, come si sa, hanno dato ad intendere agli arabi che i nostri aeroplani sono...genii alati che Allah manda da Costantinopoli per confortare i difensori della bandiera del profeta. Gli arabi dapprima hanno creduto alla geniale...spiritosa invenzione. –Ma oggi – ci dice Gavotti – non ci crederanno più! Quando giunsi presso l’accampamento prosegue il baldo e valoroso ufficiale, mi innalzai così da portarmi fuori di tiro da possibili fucilate; poi iniziai una serie di giri concentrici sull’oasi. L’apparecchio funzionava perfettamente: rallentai alquanto la velocità e, quando mi parve di essere proprio sopra il centro dell’accampamento di Ain Zara lasciai cadere una granata. Il fragore dello scoppio e l’eco confusa di grida feroci giunsero fino a me. Contemporaneamente una scarica di fucileria crepitò senza però che le pallottole raggiungessero e locassero l’”Etrich”. Ritornai altre tre volte sull’oasi e lanciai un’altra granata che gittò maggiore scompiglio nel campo ottomano. Vidi fuggire altre torme di soldati per ogni direzione come impazziti fuggivano specialmente verso la grande cava di pietre come a cercar rifugio dall’improvviso bombardamento celeste. Gettai le altre due granate contro uno stormo di fuggiaschi. Anche gli armenti si sbandarono dal recinto ove erano stati rinchiusi”. La notizia dell’ardito e riuscitissimo esperimento del valoroso tenente Gavotti, reso noto alle truppe da un ordine del giorno emanato dal Comando, ha destato vivissimo entusiasmo nelle truppe.
All’Italia spetta il primo posto in assoluto nell’aver utilizzato il bombardamento aereo come operazione militare, anche se il Regno d'Italia aveva sottoscritto la Convenzione dell’Aja del 1907, che prevedeva la messa al bando del lancio di esplosivi da aeromobili in caso di guerra. Il primo utilizzo del bombardamento aereo coincise quindi anche con una delle prime violazioni del diritto dei conflitti armati nel XX secolo. L'immancabile e immarcescibile Gabriele D'Annunzio metteva in versi il bombardamento e la figura del tenente Giulio Gavotti:

“e tu Gavotti, dal tuo lieve spalto
chinato nel pericolo dei venti
sul nemico che ignora il nuovo assalto!
...
                                      Di su l’ala tu scagli la tua bomba
alla subita strage; e par che t’arda
Il cuor vivo nel filo della romba….”


Un'altra storia
da Barricate a Parma di Mario De Micheli, Editori Riuniti, 1960:
Nel cimitero di Langhirano sorge un piccolo monumento funebre che ricorda un tragico fatto accaduto nel settembre del 1911.

L’epigrafe incisa dice: Il proletariato ai suoi martiri. E’ un monumento modesto: la consueta fiamma di bronzo agitata dal vento, una stele da cui pende una corona di spine e un blocco di marmo sbozzato a colpi di mazza, dono dei cavatori apuani. Sotto riposano i morti: Elisa Grassi di 24 anni, Maria Montali di 22, Severino Frati di 33, Antonio Gennari di 43. Era scoppiata la guerra di Libia... Le direzioni del Partito socialista e della CGL proclamarono uno sciopero generale di protesta di ventiquattro ore. Era il 27 settembre. Nella provincia di Parma la decisione dello sciopero fu accolta con slancio. 
Nella giornata del 27 lo sciopero fu compatto tanto in città quanto nelle campagne. Soltanto i tramvieri delle linee a vapore fecero eccezione. Era stato perciò necessario che gli scioperanti impedissero il traffico delle tramvie, bloccando la partenza dei treni nelle stazioni poste a capo delle varie linee. Ma anche questa operazione era riuscita poichè i tramvieri, controllati dalla polizia, non domandavano in fondo che un pretesto qualsiasi per unirsi agli scioperanti. Lo sciopero però cessava a mezzogiorno dell’indomani. Il mattino del 28 quindi, verso le cinque, che il sole non si era ancora levato, un gruppo di una quarantina fra uomini e donne, s’incamminò dalle case di Langhirano verso la stazione per vedere se era possibile impedire la partenza del tram anche per quel giorno. Camminavano calmi e con intenzioni così poco aggressive che si erano portati dietro anche i bambini. Nessuno gridava. La dimostrazione non poteva essere più pacifica e corretta. Quando però il gruppo giunse alla stazione, la trovò presidiata da una squadra di carabinieri appoggiata da alcune guardie forestali: impugnavano i moschetti con aria minacciosa. Le carrozze non erano ancora pronte e la macchina si trovava dentro al deposito. Parte dei dimostranti si dispose perciò attraverso i binari, mentre gli altri entravano nel piazzale interno della stazione. Pareva che ogni cosa si svolgesse senza incidenti: tra qualche minuto sarebbero venuti i tramvieri, la gente avrebbe parlato con loro, il convoglio non si sarebbe formato e la manifestazione si sarebbe sciolta. Invece di colpo, i carabinieri si scagliarono violentemente contro gli operai e i contadini, gettando a terra le donne e calpestandole. Poi, quasi subito, senza intimazioni, senza squilli di tromba, senza preavviso, incominciarono a sparare furiosamente. Fu un momento d’angoscia: i carabinieri non sparavano in alto, ma contro la folla! Le scariche durarono pochi attimi e tuttavia sembrò che non dovessero aver fine. I dimostranti colpiti dal piombo cadevano al suolo rantolando, gridando di dolore; gli altri fuggivano verso il paese inseguiti dal sibilo dei proiettili. Quando il fuoco cessò, undici corpi giacevano a terra nel piazzale. Un proiettile aveva forato la nuca d’una ragazza ventenne, Maria Montali: altri due colpi l’avevano presa alle spalle. Un’altra donna, Elisa Grassi, incinta da alcuni mesi, era stramazzata coi polmoni squarciati. Severino Frati, invece, ai primi colpi, era balzato sul piano caricatore di una vettura, ma qui l’aveva raggiunto una guardia forestale che, dal basso, sparandogli alla gola, gli aveva reciso la vena del collo: il Frati era caduto giù di schianto. Più tardi si ebbe modo di constatare che il Frati era letteralmente crivellato di proiettili alla coscia e al braccio destro. Antonio Gennari era stato raggiunto da una palla che gli aveva asportato l’occhio e da altri due colpi alle spalle che l’avevano attraversato da parte a parte: “Fucilato alla schiena”, disse poi un testimonio. Tre morti, un moribondo (il Gennari, che morirà qualche tempo dopo all’ospedale di Parma) e sette feriti, tra cui alcuni assai gravi, giacevano dunque, immersi nel loro sangue, sul piazzale di Langhirano. Compiuto l’eccidio, col moschetto ancora fumante in pugno, il comandante della squadra omicida, chiamò il capo stazione e gli disse: “Ora lei, capo, può fare attaccare la macchina che i binari sono sgombri”.


2011

Non c'è modo di sintetizzare questa guerra che, cominciata con il bombardamento francese del 20 marzo, doveva durare pochi giorni ed e' invece tuttora in corso [23 giugno 2011]. 
Il vocabolario è il solito: guerra umanitaria, risoluzione delle Nazioni Unite [n.1973 che impone la no-fly zone e la protezione dei civili], i civili che fuggendo dalla guerra vengono lasciati in balia delle onde del muro del Mediterraneo, Gheddafi e i suoi sgherri, Gheddafi e i suoi mercenari, il petrolio, gli impianti petroliferi, i terminali petroliferi, l'Eni, i danni collaterali, i civili morti per "errore tecnico" della Nato e dei tanks di Gheddafi, i Tornado italiani e i raid aerei, la latitanza del pacifismo, il Presidente della Repubblica che ribadisce che bombardare è il naturale sviluppo, la Lega che non vuole più spendere soldi per la Libia, il PD che dice che bisogna continuare, i lealisti e il Consiglio Nazionale di Transizione, le tribù libiche , i fondi libici in Italia, ministro esteri italiano: tregua umanitaria, no, volevo dire un'altra cosa, missione in Libia (?), ambasciatori libici che abbandonano Gheddafi, Obama scherza col fuoco, profughi dalla Libia a Lampedusa,  gli stupri dei soldati di Gheddafi, Sarkozy e le elezioni presidenziali, ecc.
Ma c'è una guerra in Libia?

A Tripoli! nella versione, probabile, di Gea della Garisenda.  Giovanni Crovetto, l'autore del testo, era un giornalista de La Stampa.




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