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L'alfabeto delle notti


C'è sempre qualcosa di inatteso quando si pensa ad Haiti.
Per me era stata, tanti anni fa, la lettura di questo libro - oggi riedito da Derive Approdi - a farmi rovesciare la mia idea della storia.  Da quell'isola veniva la modernità come affermazione del diritto all'uguaglianza.
Oggi Haiti sembrerebbe solo un coagulo di disgrazie. 
Invece vi fermenta la poesia,  anche nella forma del romanzo.
Quella che segue è la recensione al libro di Jean-Euphèle Milcé, L'alfabeto delle notti Gorée, 2010, pagg. 171, trad. di Andrea Ughetto, che ho pubblicato su Il Manifesto del 23 ottobre 2010.





Haiti è un’isola sperduta nell’oceano della nostra fantasia. Dalle sue bocche vengono solo rumori di sventura che raccontano la loro pena. E noi restiamo immemori del capovolgimento della storia che lì si è compiuto per la prima volta duecento e più anni fa quando gli schiavi africani deportati scardinavano l’ordine schiavistico che li regolava opponendosi in armi al Vecchio Regime e alla Rivoluzione Francese coalizzati.


Articolo 2 della seconda Costituzione di Haiti, 20 maggio 1805: “La schiavitù è abolita per sempre” Articolo 12: “Nessun uomo bianco, di qualsiasi nazione egli possa essere, metterà piede su questo territorio con il titolo di padrone o proprietario, né potrà in futuro acquisire proprietà su questo territorio

Un’apertura verso il futuro, Toussaint L’Ouverture si chiamava il leader, che potrà essere radiata dalla memoria, non dallo sviluppo degli eventi della modernità.

“Salendo dal basso verso l’alto, le speranze massacrate dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza fluttuano sospese su un luogo che ormai ha perso il suo destino di capitale. La città ruggisce.” Rimugina tra sé e sé Assaël, il protagonista di L’alfabeto delle notti di Jean-Euphèle Milcé, scrittore haitiano nato nel 1969, alla sua seconda prova dopo Un archipel dans mon bain, esperto di lingua creola in cui si inciampa in qualche pagina del libro a ricordarci una lingua forgiata dagli schiavi per se stessi. Ma con Assaël non assistiamo alla dialettica servo-padrone in chiave caraibica, partecipiamo invece ad una passione d’amore che si dilegua perché l’amante è svanito nel nulla. A causa di questa perdita comincia l’esodo del protagonista che si incammina alla ricerca “Coprifuoco nella mia testa. Tutte le ore si assomigliano in questo paese che da sempre mi abita. Sono paralizzato. Chiudere il negozio. Bere l’ultimo bicchiere di rum. Partire. Questo paese mi insegue” Esodo o esilio? Tutti e due si addicono perché Assaël è un haitiano bianco, ebreo e, come se non bastasse, omosessuale e la città, Port-au-Prince, con la sua didattica dell’inferno non è riuscita ad insegnargli a vivere e solo la passione lo può guidare.
Nella cattolica Haiti Dio è condito in tutte le salse e lo puoi interrogare questionando sacerdoti vudu o missionari pedofili, ciascuno con la propria quota di ricordi e di oracoli. Anche un losco rivoluzionario è disponibile. Interpellato non ha nulla da rivelare che serva ad Assaël per ritrovare l’amico Fresnel, se non l’orrore di cui è iniziatore. “Ai tropici, la notte arriva sempre come una sorpresa, la luce volge al nero pesto senza scrupoli” Anche la paura, anche la morte sopraggiungono con il medesimo anticipo, quando meno te le aspetti. Non solo ad Haiti.

Milcé è bravo, applica a questa realtà convulsa una prosa pulsante, senza enfasi né melodrammi, ma intrisa di poesia. Qualche volta inaspettata, come la notte caraibica che spesso avvolge la materia dark di questo romanzo. Qualche volta a se stante, preludio ad altre diramazioni narrative appena accennate, che si accumulano senza tuttavia pesare. Alla narrazione dell’empietà si contrappone un tratto poetico esaltante che il più delle volte si traduce in un’epica interiore che non lascia scampo. Assaël vuole imporre una accelerazione alla propria vita, ma in questo paese non è facile: “Nessuno è di qua. Siamo tutti stranieri morsicati da questo paese. Quando il virus si installa, non osi più partire. Haiti ha il dono di infilarsi profondamente nell’anima di quelli che l’hanno abbordata” Un’economia delle parole che riduce la distanza con chi legge, che diventa anch’egli un viandante di questo paese sempre in transito “Haiti è il paese dei sette cammini, delle sette croci, di tutte le verità”.

La traduzione di Andrea Ughetto – autore anche di una ricca postfazione - non poteva far di meglio nel restituire il caos trattenuto di questa prosa che ondeggia tra hip hop e grande stile. Alla fine Haiti non è più solo terremoto e “il più povero dei paesi latinoamericani”, ma anche una palese e tormentata fabbrica di poesia e umanità.

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