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THAILANDIA MAGGIO 2010





articolo pubblicato su RIFORMA del 3 giugno 2010

www.riforma.it/


Come si spiegano i violenti scontri verificatisi a Bangkok nelle ultime settimane?
Che sta succedendo nel «Paese del sorriso»?


E’ stato cremato in un tempio buddhista di Bangkok Fabio Polenghi, il fotoreporter italiano ucciso durante gli scontri nella capitale thailandese. Ucciso da chi? E’ la prima domanda che avrebbe dovuto inquietare gli animi. La seconda me la pongo io: perché non i funerali di Stato? Perché non indossava una divisa e a tracolla aveva una macchina fotografica e non un mitragliatore? Non so decidermi se quest’ultima sia un’ulteriore domanda o una risposta. Ma di domande senza risposta o con risposta incorporata ce ne sono tante se si guarda alla Thailandia di oggi che, dal momento che non ci sono più morti e feriti, è scomparsa dai media italiani. Ce l’ha ricordata il festival di Cannes, assegnando la palma d’oro al film Uncle BooMee, del regista thailandese – e qui bisogna abituarsi a emettere suoni strani per noi – Apichatpong Weerasethakul.

Ma come, la Thailandia delle spiagge incantevoli, Phuket di sogno, “vivere in paradiso”, come titolano le agenzie di viaggio? Thailandia, “paese del sorriso”, come declamano i depliants della Thai Airways? Bangkok, la “città del piacere”, come l’ha decantata qualcuno, senza indagare troppo sulle fornitrici e piccoli fornitori di godimento? Ebbene, questa Thailandia fantasmagorica è anche la terra dove in due mesi di dimostrazioni più di 80 cittadini sono stati falcidiati dalle truppe governative. Se fosse successo a Parigi o a Milano saremmo con le mani nei capelli a interrogarci e a biasimare. Ma quel paese nelle nostre teste appartiene ancora ad un inesistente Terzo Mondo cui si può paternalisticamente perdonare tutto, meno la crescita media del Pil del 3,5% contro la nostra dello 0,0%, se va bene. Questa perdurante supponenza non aiuta a capire e spinge invece a semplificare, per non faticare: a Bangkok si sono scontrati rossi contro gialli, poveri contro ricchi, popolo contro potere, democratici contro antidemocratici, campagna contro città. Insomma, buoni contro cattivi, che è una formula che vende sempre bene sul mercato internazionale delle notizie. Fa fine e non impegna. Soprattutto ognuno si sceglie i buoni con cui stare e i cattivi da incolpare.
Forse un po’ di modesta cronologia può servire a riordinare qualche idea: la Thailandia dalla fine della monarchia assoluta nel 1932 ha avuto 18 costituzioni e patito diversi colpi di Stato, in una società che si vuole armonica, con fede nel karma, disposta al sacrificio individuale per il bene collettivo. Una nazione orgogliosa di non essere mai stata sottoposta al colonialismo europeo. Dunque una costruzione tormentata della democrazia, qualunque cosa voglia dire oggi questa parola.


Nel 1994 il magnate Thaksin Shinawatra è “sceso in campo” fondando il partito Thai Rak Thai – I Thailandesi amano i Thailandesi [TRT], un “partito dell’amore”. Nel 2001 vince le elezioni e diventa primo ministro attuando una politica di ampio sostegno delle popolazioni rurali povere del Nord del paese, da cui proviene, ingaggiando una lotta alla droga che non esclude l’eliminazione fisica di spacciatori e consumatori, accumulando ulteriore ricchezza con metodi “disinvolti”. Nel 2005 viene nuovamente eletto – mai successo in Thailandia - con una vasta maggioranza, l’anno successivo i militari lo sloggiano dal governo e il suo partito viene dichiarato illegale. Thaksin fugge all’estero. Nuova Costituzione, approvata con un referendum, nel 2007, a dicembre le elezioni vengono vinte a grande maggioranza dal Partito del potere del popolo [PPP], che non è altro che la versione legale del partito di Thaksin.

Nel 2008 manifestazioni delle camicie gialle contro il governo, la Corte Costituzione destituisce il primo ministro Samak Sundaravej accusato di conflitto di interesse e condanna Thaksin per corruzione e, non contenta, destituisce anche il successore di Samak. Il parlamento nomina primo ministro il capo dell’opposizione Abhisit Vejjajiva [si pronuncia Veiciàciua].

Marzo 2009 le camicie rosse, sostenitrici di Thaksin dimostrano contro il governo, nel marzo 2010 occupano il centro di Bangkok. L’esercito attacca.

Più di 80 cittadini restano sul terreno. Nessuno ha vinto. La camicie rosse sono tornate esultanti nelle città del nord con festeggiamenti alle stazioni, adesso hanno la loro riserva di


martiri e una vendetta da covare. Il governo promette ordine e tira fuori la più comoda e scontata delle accuse contro Thaksin, che se ne sta tra Dubai, Montenegro e Parigi, quella di essere un terrorista, lui e il “suo” movimento.


Noi italiani siamo particolarmente abilitati a capire le contraddizioni della democrazia thailandese, tra magnati che “scendono in campo”, magistratura che sostituisce la politica, conflitti di interesse, “partiti dell’amore” e populismo sparso. La t-shirtcrazia, come l’ha definita il Bangkok Post, si è rivelata non particolarmente lungimirante: le camicie gialle, anch’esse fondate da un magnate, hanno sovvertito nel 2008 la legalità facendosi forti dei loro indubbi successi economici e appoggiando e appoggiandosi ai due poteri più tangibili del paese: l’esercito e la monarchia di cui hanno “preso” il colore. Le camicie rosse e i molti ceti popolari che rappresentano, hanno ta sawang-illuminati gli occhi per vedere la diversa velocità di arricchimento di chi sta a Bangkok e ha gli amici giusti. Non hanno mai voluto un sovvertimento del sistema, ma una maggiore rappresentanza politica consci della loro forza e pur tuttavia hanno rifiutato al culmine degli scontri la proposta di nuove elezioni a novembre fatta da Abhisit, il capo del governo, convinti di poterlo piegare con lo sconvolgimento urbano. Non è stato così e l’unico a venir rafforzato in questo conflitto è, ancora una volta, l’esercito. Le camicie rosse, che sicuramente sono andate ben oltre all’appoggio a Thaksin ed hanno costituito una vera novità anche organizzativa con la loro leadership plurale e i “laboratori di democrazia” sparsi per il paese, dovranno tener conto della mutazione del quadro politico, soprattutto del rancore che si è accumulato nei ceti medio-alti della capitale contro il khon ban nok-la popolazione dell’interno e la voglia di rivalsa di questi ultimi. Un quadro da guerra civile che non promette bene. La richiesta di indipendenza di alcune aree del sud del paese a maggioranza musulmana ha già

prodotto un conflitto con migliaia di morti e accresce la drammaticità della situazione. Non sarà il coprifuoco esteso a buona parte del paese a spegnerlo, il fuoco.
La riverita figura di conciliatore, Sacro Piede, Signore Sacro, grande Grande Bhumibol Adulyadej, il re, buon jazzista, ha 83 anni, è ammalato di cancro, e la politicizzazione che si è creata del suo “divino” ruolo l’ha indebolito invece di rafforzarlo. Il successore, il figlio Vajiralongkorn, di 57 anni, è uno scavezzacollo non particolarmente amato, che non disdegna di dimostrare la sua amicizia con Thaksin. Potrebbe riservare delle sorprese la sua eventuale designazione.



La Thailandia non è un’isola sperduta nell’oceano. Sta nei pressi di paesi che al solo nominarli evocano dense, drammatiche e complesse storie: Cambogia, Vietnam, Birmania, Cina. Sediamoci in un ufficio governativo di Hanoi, di Naypidaw, la nuova chimerica capitale della Birmania/Myanmar, di Pechino e guardiamo agli eventi di Bangkok.

Sembra di sentirli: vedi cosa produce la democrazia?



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