Il primo gennaio di quest’anno è entrato in vigore il CAFTA, zona di libero scambio tra la Cina e i paesi dell’Asean [1], cioè tra un gigante dell’economia, qualche medio colosso e alcuni nani. Un ministro di questi ultimi paesi, la Cambogia, durante la cerimonia ha detto che, certo, l’industria tessile cambogiana non può pensare di competere con quella cinese, ma che la Cina potrà sempre delocalizzare settori della sua industria in Cambogia, perché lì i costi di produzione sono più bassi e, soprattutto, il lavoro costa meno di quello cinese.
Mi pare di averla già sentita questa tiritera. Fra qualche anno, o decennio, dove delocalizzerà la Cina/Cambogia per trovare forza lavoro a prezzo ancora più basso? Non in Africa, già occupata, se così si può dire, dalla Cina stessa [2].
Metti che nel frattempo la forza lavoro italiana sia diventata ancora più a buon mercato di quanto non sia oggi. Il ciclo si potrebbe concludere: dall’Italia alla Cina, da qui alla Cambogia e simili, fino a tornare per sfigurati e rovinati lavoratori italiani.
Questa lunga premessa per introdurre il tema Immigrazione e lavoro e per segnalare due interessanti lavori:
il primo, di Enrico Pugliese, noto sociologo del lavoro, apparso su La critica sociologica, 171, autunno, 2009, con il titolo Globalizzazione, lavoro e migrazioni internazionali;
il secondo, di Hsiao-Chuan Hsia, The Making of a Transnational Grassroots Migrant Movement – A Case Study of Hong Kong’s Asian Migrants’ Coordinating Body, pubblicato in Critical Asian Studies, 1, 2009.
Pugliese compie un’ampia panoramica dei rapporti tra i fattori indicati nel titolo. Tra i tanti, vorrei sottolineare alcuni aspetti: il primo è il fenomeno per cui i bacini di manodopera si estendono infinitamente. La mobilità territoriale dell’offerta di lavoro in questo contesto diventa molto alta e i flussi vanno nelle direzioni più varie. In questo contesto normalmente si tende a mettere l’accento sull’eccedenza demografica dei paesi poveri e della conseguente fuga per ragioni economiche. Ma, sottolinea Pugliese, bisogna anche tener conto del ruolo della domanda di lavoro nei paesi ricchi che…rappresenta un importante fattore di attivazione dei flussi. I quali non sono solo generati dalla spinta della povertà, ma anche dalla domanda che viene dal Nord del mondo, per cui l’immigrazione non è solo disperazione con fuga, ma anche risorsa per imprese e famiglie che la richiedono e sollecitano. E’ la differenza fra protagonista e sottomesso.
Un secondo aspetto è la grande segmentazione del lavoro immigrato, spesso differenziato per nazionalità: romene e ucraine come “badanti”, bangladeshi nel piccolo commercio al minuto, filippini nel lavoro domestico ecc. Segmentato anche per il fatto che gli immigrati vanno verso paesi con livelli disoccupazione tanto bassi quanto elevati. Il caso italiano essendo esemplare: gli immigrati vanno sia nel Veneto o nelle Langhe, con elevata domanda di lavoro, sia nel Mezzogiorno con domanda di lavoro debole. Ma qui, aggiungo io, bisognerebbe approntare qualche osservazione di tipo “pasoliniano” sulla modifica antropologica degli italiani rispetto al lavoro: certe condizioni lavorative e certi livelli salariali sono ritenuti assolutamente non più accettabili dagli italiani.
Dolores Ballares, responsabile di una delle Organizzazioni costituenti l’AMCB, la Unifil-Migrante-HK: Filippini Uniti in Hong Kong
L’articolo in Critical Asian Studies è molto interessante perché è un’analisi approfondita, anche attraverso interviste, di una significativa esperienza di organizzazione di lavoratori e lavoratrici immigrati, in questo caso ad Hong Kong. Lo studio pone in rilievo un diverso intendimento di quello che negli studi sulle organizzazioni si definisce come transnazionalismo, concepito e teorizzato solitamente come il rapporto costruttivo in termini economici, politici e culturali che l’immigrato stabilisce tra il paese [o i paesi] di approdo e quello di origine. Qui si tratta di transnazionalismo operativo, organizzativo, di lotta, tra nazionalità diverse operanti nello stesso spazio di destinazione. Quindi non solo trans-confini, ma soprattutto trans-nazionalità costruite dal basso. In concreto, nell’articolo viene esaminata la formazione dell’AMCB-Asian Migrants’ Coordinating Body nel 1996 come coalizione di diverse organizzazione “etniche” di base [filippine, cingalesi, indonesiane, thailandesi, nepalesi] e di genere. Come costruire solidarietà là dove ci sono barriere “razziali” ed economiche, come cooperare e formare nuovi militanti, come organizzare mobilitazioni comuni tra lavoratori e lavoratrici, come si diceva sopra, segmentati, come collegarsi ai movimenti in patria, come con gli altri movimenti di migranti?
A queste domande la studiosa risponde esemplificando la traiettoria costitutiva dell’associazione, rilevando come nel 2008 abbia partecipato alla formazione a Manila della International Migrant Alliance- IMA [www.pinas.net/ima].
Una attiva soggettività migrante, conclude Hsia, non si produce spontaneamente, ha bisogno di essere costruita passo dopo passo, senza fare troppo affidamento agli appoggi esterni, ad esempio le ONG [3]
[1] L’Asean – Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico- si è costituita nel 1967 tra Malesia, Singapore, Indonesia, Thailandia e Filippine. Negli anni recenti si è allargata a Brunei, Laos, Cambogia, Vietnam e Birmania/Myanmar.
[2] Cos’è questa presenza cinese in Africa: una nuova forma di colonialismo o una cooperazione tra pari, Sud-Sud? Un’alleanza tra le neo-borghesie rapaci di entrambi o uno scambio di investimenti e risorse? La puzza al naso dei bianchi è sostituita dalla dedizione al lavoro e al sudore degli operai cinesi in Africa? Il ravvivato interesse USA per l’Africa ha a che fare con la paura di una egemonia cinese nell’Africa dalle grandi risorse di materie prime? E’ sì o no un terremoto geopolitico che darà il via ad un Grande Gioco mondiale?
Si potrebbe continuare a lungo con domande sostanziali e pungenti.
Traccia di risposte si possono trovare in una discreta pubblicistica che l’editoria italiana, questa volta bisogna riconoscerlo, è stata pronta a mettere in circolazione.
Aveva aperto nel 2007 una casa editrice milanese, dedita all’Asia, la ObarraO, con un importante lavoro pionieristico: Safari cinese. Petrolio, risorse, mercati. La Cina alla conquista dell’Africa, di C.Brighi, I. Panozzo, M.Sala. Gli autori facevano una storia del rapporto Africa/Cina, dai tempi del maoismo e del “socialismo africano” fino, quasi, ai nostri giorni. Quando scrivevano che la Cina invade l’Africa avevano l’accortezza di mettere tra parentesi “invade”, dal momento che le categoria di colonialismo e imperialismo in questo caso sono ingarbugliate e devono di nuovo essere ridefinite..
Il titolo del volume pero’ ci segnala la natura compromessa del nostro sguardo sull’Africa: il safari, come si sa, è una partita di caccia grossa. Come se gli africani fossero oggetto di caccia al pari di leoni, zebre e rinoceronti. Trappole linguistiche che raccontano una lunga storia del nostro rapporto con l’Africa. In Africa gialla. L’invasione economica cinese nel continente africano di Angelo Ferrari, UTET, 2008, la razzialità dei colori si palesa fin dal titolo e con noncurante leggerezza si dispone nelle pagine del libro, per altri versi molto interessante. Come se parlando a qualsiasi titolo dell’Africa non potesse non venir fuori la politica razziale dei colori che ha dominato la modernità europea:”L’aereo per Luanda sembra essere di loro proprietà. Il colore dominante è il giallo”[pag.26] o “…gli aerei in arrivo a Luanda sono stracolmi di gialli” [pag.44]. Non si arriva ai musi gialli, ma poco ci manca, dando per inteso che i cinesi siano effettivamente gialli di pelle e che il termine sia innocuamente neutro.
Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, di S.Michel, M. Beuret, trad. di C. Maiocchi, Il Saggiatore, 2009, sfugge quasi completamente alla razzialità dello sguardo e, soprattutto, è il risultato di una investigazione condotta non solo in Africa, ma anche in Cina, seguendo i protagonisti nei loro spostamenti e nelle realtà di residenza originaria. Un lavoro scrupoloso, arricchito dalle foto di Paolo Woods. E’ anche il libro che tenta di trovare frammenti di risposta alle questioni poste più sopra.
Che se ne fa l’Africa del capitalismo rampante della Cina? Alla domanda cerca di rispondere Stefano Gardelli in L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi Editore, 2009. Una sintesi non frettolosa che implica ulteriori interrogativi sui modelli di sviluppo di stampo “occidentale e “orientale” che in Africa si esibiscono ed entrano in concorrenza.
Ma chi volesse avere informazioni più dettagliate dovrebbe procurarsi la rivista Meridione. Sud e Nord del mondo, Napoli, edizione ESI, fascicolo n. 4/2008 interamente dedicato a Cina e Stati Uniti in Africa: opportunità di sviluppo o neocolonialismo del Terzo Millennio? Il caso di alcuni paesi (2000-2006) a cura di Liliana Mosca e Lucia Sorrentino, attraverso cui accedere anche all’abbondante bibliografia internazionale in costante aggiornamento.
Ripartirà l’Africa grazie alla Cina?
[3] uno studio preparatorio della medesima autrice si può leggere in www.apmigrants.org/papers/transnationalism_fr_below.pdf
Mi pare di averla già sentita questa tiritera. Fra qualche anno, o decennio, dove delocalizzerà la Cina/Cambogia per trovare forza lavoro a prezzo ancora più basso? Non in Africa, già occupata, se così si può dire, dalla Cina stessa [2].
Metti che nel frattempo la forza lavoro italiana sia diventata ancora più a buon mercato di quanto non sia oggi. Il ciclo si potrebbe concludere: dall’Italia alla Cina, da qui alla Cambogia e simili, fino a tornare per sfigurati e rovinati lavoratori italiani.
Questa lunga premessa per introdurre il tema Immigrazione e lavoro e per segnalare due interessanti lavori:
il primo, di Enrico Pugliese, noto sociologo del lavoro, apparso su La critica sociologica, 171, autunno, 2009, con il titolo Globalizzazione, lavoro e migrazioni internazionali;
il secondo, di Hsiao-Chuan Hsia, The Making of a Transnational Grassroots Migrant Movement – A Case Study of Hong Kong’s Asian Migrants’ Coordinating Body, pubblicato in Critical Asian Studies, 1, 2009.
Pugliese compie un’ampia panoramica dei rapporti tra i fattori indicati nel titolo. Tra i tanti, vorrei sottolineare alcuni aspetti: il primo è il fenomeno per cui i bacini di manodopera si estendono infinitamente. La mobilità territoriale dell’offerta di lavoro in questo contesto diventa molto alta e i flussi vanno nelle direzioni più varie. In questo contesto normalmente si tende a mettere l’accento sull’eccedenza demografica dei paesi poveri e della conseguente fuga per ragioni economiche. Ma, sottolinea Pugliese, bisogna anche tener conto del ruolo della domanda di lavoro nei paesi ricchi che…rappresenta un importante fattore di attivazione dei flussi. I quali non sono solo generati dalla spinta della povertà, ma anche dalla domanda che viene dal Nord del mondo, per cui l’immigrazione non è solo disperazione con fuga, ma anche risorsa per imprese e famiglie che la richiedono e sollecitano. E’ la differenza fra protagonista e sottomesso.
Un secondo aspetto è la grande segmentazione del lavoro immigrato, spesso differenziato per nazionalità: romene e ucraine come “badanti”, bangladeshi nel piccolo commercio al minuto, filippini nel lavoro domestico ecc. Segmentato anche per il fatto che gli immigrati vanno verso paesi con livelli disoccupazione tanto bassi quanto elevati. Il caso italiano essendo esemplare: gli immigrati vanno sia nel Veneto o nelle Langhe, con elevata domanda di lavoro, sia nel Mezzogiorno con domanda di lavoro debole. Ma qui, aggiungo io, bisognerebbe approntare qualche osservazione di tipo “pasoliniano” sulla modifica antropologica degli italiani rispetto al lavoro: certe condizioni lavorative e certi livelli salariali sono ritenuti assolutamente non più accettabili dagli italiani.
Dolores Ballares, responsabile di una delle Organizzazioni costituenti l’AMCB, la Unifil-Migrante-HK: Filippini Uniti in Hong Kong
L’articolo in Critical Asian Studies è molto interessante perché è un’analisi approfondita, anche attraverso interviste, di una significativa esperienza di organizzazione di lavoratori e lavoratrici immigrati, in questo caso ad Hong Kong. Lo studio pone in rilievo un diverso intendimento di quello che negli studi sulle organizzazioni si definisce come transnazionalismo, concepito e teorizzato solitamente come il rapporto costruttivo in termini economici, politici e culturali che l’immigrato stabilisce tra il paese [o i paesi] di approdo e quello di origine. Qui si tratta di transnazionalismo operativo, organizzativo, di lotta, tra nazionalità diverse operanti nello stesso spazio di destinazione. Quindi non solo trans-confini, ma soprattutto trans-nazionalità costruite dal basso. In concreto, nell’articolo viene esaminata la formazione dell’AMCB-Asian Migrants’ Coordinating Body nel 1996 come coalizione di diverse organizzazione “etniche” di base [filippine, cingalesi, indonesiane, thailandesi, nepalesi] e di genere. Come costruire solidarietà là dove ci sono barriere “razziali” ed economiche, come cooperare e formare nuovi militanti, come organizzare mobilitazioni comuni tra lavoratori e lavoratrici, come si diceva sopra, segmentati, come collegarsi ai movimenti in patria, come con gli altri movimenti di migranti?
A queste domande la studiosa risponde esemplificando la traiettoria costitutiva dell’associazione, rilevando come nel 2008 abbia partecipato alla formazione a Manila della International Migrant Alliance- IMA [www.pinas.net/ima].
Una attiva soggettività migrante, conclude Hsia, non si produce spontaneamente, ha bisogno di essere costruita passo dopo passo, senza fare troppo affidamento agli appoggi esterni, ad esempio le ONG [3]
[1] L’Asean – Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico- si è costituita nel 1967 tra Malesia, Singapore, Indonesia, Thailandia e Filippine. Negli anni recenti si è allargata a Brunei, Laos, Cambogia, Vietnam e Birmania/Myanmar.
[2] Cos’è questa presenza cinese in Africa: una nuova forma di colonialismo o una cooperazione tra pari, Sud-Sud? Un’alleanza tra le neo-borghesie rapaci di entrambi o uno scambio di investimenti e risorse? La puzza al naso dei bianchi è sostituita dalla dedizione al lavoro e al sudore degli operai cinesi in Africa? Il ravvivato interesse USA per l’Africa ha a che fare con la paura di una egemonia cinese nell’Africa dalle grandi risorse di materie prime? E’ sì o no un terremoto geopolitico che darà il via ad un Grande Gioco mondiale?
Si potrebbe continuare a lungo con domande sostanziali e pungenti.
Traccia di risposte si possono trovare in una discreta pubblicistica che l’editoria italiana, questa volta bisogna riconoscerlo, è stata pronta a mettere in circolazione.
Aveva aperto nel 2007 una casa editrice milanese, dedita all’Asia, la ObarraO, con un importante lavoro pionieristico: Safari cinese. Petrolio, risorse, mercati. La Cina alla conquista dell’Africa, di C.Brighi, I. Panozzo, M.Sala. Gli autori facevano una storia del rapporto Africa/Cina, dai tempi del maoismo e del “socialismo africano” fino, quasi, ai nostri giorni. Quando scrivevano che la Cina invade l’Africa avevano l’accortezza di mettere tra parentesi “invade”, dal momento che le categoria di colonialismo e imperialismo in questo caso sono ingarbugliate e devono di nuovo essere ridefinite..
Il titolo del volume pero’ ci segnala la natura compromessa del nostro sguardo sull’Africa: il safari, come si sa, è una partita di caccia grossa. Come se gli africani fossero oggetto di caccia al pari di leoni, zebre e rinoceronti. Trappole linguistiche che raccontano una lunga storia del nostro rapporto con l’Africa. In Africa gialla. L’invasione economica cinese nel continente africano di Angelo Ferrari, UTET, 2008, la razzialità dei colori si palesa fin dal titolo e con noncurante leggerezza si dispone nelle pagine del libro, per altri versi molto interessante. Come se parlando a qualsiasi titolo dell’Africa non potesse non venir fuori la politica razziale dei colori che ha dominato la modernità europea:”L’aereo per Luanda sembra essere di loro proprietà. Il colore dominante è il giallo”[pag.26] o “…gli aerei in arrivo a Luanda sono stracolmi di gialli” [pag.44]. Non si arriva ai musi gialli, ma poco ci manca, dando per inteso che i cinesi siano effettivamente gialli di pelle e che il termine sia innocuamente neutro.
Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, di S.Michel, M. Beuret, trad. di C. Maiocchi, Il Saggiatore, 2009, sfugge quasi completamente alla razzialità dello sguardo e, soprattutto, è il risultato di una investigazione condotta non solo in Africa, ma anche in Cina, seguendo i protagonisti nei loro spostamenti e nelle realtà di residenza originaria. Un lavoro scrupoloso, arricchito dalle foto di Paolo Woods. E’ anche il libro che tenta di trovare frammenti di risposta alle questioni poste più sopra.
Che se ne fa l’Africa del capitalismo rampante della Cina? Alla domanda cerca di rispondere Stefano Gardelli in L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi Editore, 2009. Una sintesi non frettolosa che implica ulteriori interrogativi sui modelli di sviluppo di stampo “occidentale e “orientale” che in Africa si esibiscono ed entrano in concorrenza.
Ma chi volesse avere informazioni più dettagliate dovrebbe procurarsi la rivista Meridione. Sud e Nord del mondo, Napoli, edizione ESI, fascicolo n. 4/2008 interamente dedicato a Cina e Stati Uniti in Africa: opportunità di sviluppo o neocolonialismo del Terzo Millennio? Il caso di alcuni paesi (2000-2006) a cura di Liliana Mosca e Lucia Sorrentino, attraverso cui accedere anche all’abbondante bibliografia internazionale in costante aggiornamento.
Ripartirà l’Africa grazie alla Cina?
[3] uno studio preparatorio della medesima autrice si può leggere in www.apmigrants.org/papers/transnationalism_fr_below.pdf
pubblicato sulla Newsletter dell'OSSERVATORIO SULL'IMMIGRAZIONE dell'IRES - PIEMONTE ,
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