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LA SALSA DELL'INTERCULTURA



La salsa dell’intercultura
osservazioni brevi


Manà


Comincerei dai dettagli. Il logo di questo convegno [Centro congressi Villa Marengo - Alessandria ] è rappresentato da un frammento di Guernica di Picasso.

Non colgo la pertinenza. Il bombardamento del ’37 della città basca di Guernica da parte dei nazisti in appoggio ai franchisti è stato un evento del tutto interno alla storia europea. Segna uno dei momenti più avanzati del precipitare europeo verso la seconda guerra mondiale e i suoi orrori.
Non mi è chiaro in quale rapporto stia con l’America Latina, tema dell’incontro. Anche appoggiandosi alla lettura universalistica che ne fa Picasso, siamo lontani dal fornire un qualche indizio interpretativo sul continente latinoamericano, mentre avrebbe ragione di essere se parlassimo di Irak, ad esempio.
Siamo invece molto vicini allo sguardo pesante dell’europeo che, credendo di guardare, in realtà proietta il proprio immaginario normativo sul resto del mondo costruendolo a propria immagine e somiglianza, per poi disprezzarlo o innamorarsene per redimerlo (1).

semantica allegra
Questa digressione di partenza mi permette di indicare il breve percorso che intendo seguire nell'intervento: lavorare sull’ovvietà, sulla banalità delle parole che il mercato del linguaggio ci offre. In special modo su due totem linguistici come intercultura e integrazione. Un tentativo di movimentare un poco l’ordine discorsivo, toccando due parole a rischio.

Intercultura è una parola magica, la usano assessori e insegnanti, psicologi e politici, editori e giornalisti, commercianti e filosofi.
Si presenta come una parola autoevidente il cui significato è dato come esplicito, chiaro per tutti. Una specie di parola trascendente cui basta agganciarsi per legittimare qualsiasi discorso sui rapporti fra i popoli. Non tocco il termine etnia, perché suppongo che in questo convegno ne sia “vietato” o almeno sconsigliato l’uso, dato il carattere coloniale e sostanzialmente razzistico del termine e dei suoi derivati.

Intercultura è spesso impiegato come sinonimo di multicultura/multiculturale
contribuendo così a rendere tutto più nebuloso. Quest’ultimo termine, in senso generico, sta ad indicare una situazione di fatto in cui in una popolazione si incontrano segmenti linguistici, religiosi, di costume, di provenienza diversi (2). Intercultura sottolinea invece l’aspetto di progetto, di indirizzo normativo dei rapporti tra le diverse componenti sociali.
Nonostante questo carattere orientativo il termine inter-cultura, suggerisce la costituzione di una relazione tra due o più entità denominate cultura, considerate autonome e, anch’esse, autoevidenti. Dove cultura si viene configurando come un contenitore chiuso, catalogo di proprietà appartenenti a precisi gruppi sociali, repertorio di “usi e costumi”. Cultura come cosa, come essenza di un gruppo, base ontologica della sua identità [altra parola che dovrebbe essere radiografata e di cui dovrebbero essere indicati gli usi e le ambiguità]. Dove comincia e dove finisce una data cultura? Fondamentale, in questa impostazione, la definizione dei confini di una certa cultura, che devono essere impermeabili e controllati, così che si possa stabilire una qualche ortodossia al sua interno: i veri cattolici, i veri tedeschi e i marocchini veri, i veri uomini, i veri americani ecc.
Applicata concretamente al caso italiano, la parola cultura rivela subito le sue inadeguatezze e le sue pretese conoscitive: alla cultura italiana appartengono Dante e Totti, fascismo e antifascismo, mafia e rinascimento, padre Pio, Giordano Bruno e san Gennaro, Napoli e la val Brembana, l’Alto Adige e la Basilicata, gli ideali del Risorgimento e quelli del brigantaggio, le brigate rosse e gli squadristi neri, il barese e il piemontese, Pasolini e Sgarbi, Bossi e Mastella…
Per stare alla terminologia in questione, l’Italia è da sempre un paese multiculturale, in cui fare intercultura - fra “terroni” e settentrionali, fra destra e sinistra, tra laici e cattolici, proTAV/noTAV, fra memorie condivise e memorie in conflitto… - è il primo compito di qualsiasi politica che si rispetti.
Vista “dal di dentro” una cultura non appare come un tutto compatto, ma come un orizzonte che si allontana ogni volta che ci avviciniamo. Se devo raccontarla, una cultura, una identità, una nazione, un popolo, ne devo fare una narrazione polifonica, in cui siano presenti gli elementi condivisi, quelli provvisori, quelli minoritari, quelli “presi in prestito” e, soprattutto, quelli contestati. Questi ultimi mi danno la dimensione dinamica, processuale di ogni formazione culturale.
Si prenda questa bella poesia di Juan Gelman, la si estenda dal piano individuale a quello collettivo e si avrà chiaro il carattere “ossimorico” di ogni cultura:
Juan Gelman

El juego en que andamos

Si me dieran a elegir, yo elegiria
esta salud de saber que estamos muy enfermos,
esta dicha de andar muy infelices.

Si me dieran a elegir, yo elegiria esta inocencia
de no ser un inocente,
esta pureza en que ando por impuro.

Si me dieran a elegir, yo elegiria
este amor con que odio,
esta esperanza que come panes desesperados.

Aqui pasa, seňores,
que me juego la muerte.


Il gioco in cui ci troviamo

Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
questa salute di sapere che siamo molto malati,
questa felicità di trovarci tanto infelici.

Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
quest'innocenza di non essere innocente,
questa purezza in cui mi trovo impuro.

Se mi dessero da scegliere, io sceglierei
questo amore con cui odio,
questa speranza che mangia pani disperati

E’ qui che succede, signori,
che mi gioco la morte.

Questo piano di riflessioni si può applicare a diversi gruppi sociali, nazionali e sovranazionali. Il gran discorrere che si è fatto delle “radici dell’Europa” ne ha, quasi sempre, trascurato il carattere da sempre “multiculturale”, ossimorico e conflittuale. Non è un caso che tra le varie omissioni, la più lampante sia stata quella riguardante le matrici arabo-islamiche dell’Europa medesima.

Atahualpa Yupanqui

Volendo lavorare su una filigrana di concetti meno prefissati, si dovrà mettere all’opera un’idea di cultura intesa come processo, come scambio, come trama di percorsi di interrelazioni e di mutamenti. In cui i confini sono mobili, porosi, spesso invisibili e indefinibili. Qualsiasi cosa intendiamo con cultura [ o identità] dobbiamo sapere che è un qualcosa che non sta mai fermo, che gioca con gli specchi, che li rompe, che esce dai luoghi in cui noi la collochiamo, che è piena di vuoti e di corpi “estranei”. Dobbiamo anche sapere che la nostra tendenza – e, qualche volta, colpa- è quella di definirla in base alla contrapposizione con una alterità reale o fittizia. Solo così assume consistenza.

Il titolo di questo convegno è “Alla scoperta di un “mondo altro”, l’America Latina”. Se loro sono altri, forse verrò a sapere chi siamo noi. Stabilisco una frontiera in cui ad un certo punto il noi sta di fronte all’altro. Dove sia collocata questa frontiera non è ben chiaro, ma funziona nelle nostre teste. In questa prospettiva il latinoamericano [ma chi è il latinoamericano, e la latinoamericana?] si presenta a noi già definito, incapsulato nell’idea che noi abbiamo di lui. Ancora meglio: il latinoamericano [il marocchino, il rumeno, il cinese…] è sicuramente alcune cose che non siamo noi, altrimenti come potremmo dichiararlo altro?
Se poi l’altro per caso devia dall’idea che noi abbiamo di lui [di lei, del popolo, della cultura, della nazione, del continente…] non ci rende contenti, ci delude e ci inquieta. Lui stesso farà il possibile per confermarci nella nostra convinzione, adeguandosi, folklorizzandosi, immaginandosi comunità ideale e stabile, soprattutto in contesti di migrazione, dove chi viene da fuori non puo’ esimersi dal recitare, perfino a se stesso, la parte di altro. Dando luogo a consistenti fenomeni di ricompattamento comunitario che vanno poi disegnando nuove dinamiche sociali.
Mario Benedetti ha mirabilmente espresso in versi la perenne circolarità della condizione di altro, che, troppo spesso, intercultura, antropologia, politiche varie, sembrano occultare:

Sabe vengarse

Cierro los ojos
y no existe
el projimo

se terminan
la lucha
el mar de agravios
los dueňos del dinero
la nube que amenaza

se terminan las trampas
los zánganos que dictan
la ley
los eruditos
en odio
y aquel ldtigo
que corta el aire

cierro los ojos
y no existe el pr6jimo

pero él sabe vengarse

ahora
o cuando quiera
puede cerrar los ojos
solo cerrar los ojos

y entonces
yo
non existo

Sa vendicarsi

Chiudo gli occhi
e il prossimo
non esiste

hanno fine
la lotta
il mare di oltraggi
i padroni del denaro
la nuvola minacciosa

han fine i tranelli
i fuchi che comandano
la legge
gli eruditi
in odio
e quella frusta
che taglia l'aria

chiudo gli occhi
e il prossimo non esiste

però sa vendicarsi

adesso
o quando ne ha voglia
può chiudere gli occhi
solo chiudere gli occhi

e allora
io
non esisto


Come sosteneva Edward Said, “comprendere l’altro” è sempre anche “prenderlo”, appropriarsene, farlo diventare oggetto, invece che soggetto. In un contesto in cui la voce narrante siamo sempre noi. Noi [europei, occidentali] il soggetto sovrano, noi coloro che possono rappresentare il mondo [e controllarlo]. Noi soggetto universale, noi maschi bianchi.
Anche noi, donne bianche, ma con qualche articolazione di discorso in più, se non vogliamo correre il rischio di confrontare solo patriarcati a stadi evolutivi diversi (3).
Per questo qualsiasi forma di intercultura dovrebbe in primo luogo diminuire le proprie pretese di dialogo e di comunicazione e proporsi invece di disseminare interrogativi e dubbi, fors’anche sospetti, prima di tutto su noi stessi, sulle nostre storie ed identificazioni culturali e nazionali. Sul nostro modo di rappresentare e costruire il mondo. Come dice G.C. Spivak: “unlearn one's privilege as one's loss", “disimparare i propri privilegi perche'
sono una perdita”.
Ana Lara [ in www.youtube.com/watch?v=G1jare5x7tg '>www.youtube.com/watch?v=G1jare5x7tg">www.youtube.com/watch?v=G1jare5x7tg una sua composizione eseguita dal The Pierrot Lunaire Ensemble]

Una volta setacciata la pericolosità del termine cultura, è importante riconoscere che la sua è sì una irrealtà e/o una costruzione-invenzione, ma che i suoi effetti sono realissimi, capaci di incidere profondamente su comportamenti e mentalità. Come tali vanno discussi e controllati.


Ancora alcune osservazioni sulla parola integrazione, altra stella dell’hit parade dell’intercultura. Spesso sinonimo non mascherato di assimilazione: un gruppo sociale assume i caratteri di quello dominante. Puo’ anche mimarli, tentando di restare legato alle sue condizioni anteriori all’assimilazione. Il caso storicamente più noto, si sa, fu quello dei marrani, ebrei della penisola iberica costretti dall’Inquisizione alla conversione al cattolicesimo e tuttavia portatori nascosti di alcuni elementi del giudaismo. Si può parlare anche di assimilazione giuridica, quando i diritti fondamentali di cittadinanza vengono riconosciuti, pure mantenendo, il singolo o il gruppo, proprie forme culturali.Integrazione e tutti i suoi derivati posseggono una forte connotazione positiva, se visti dal gruppo maggioritario. Indicano che gli “estranei”, i “nuovi venuti”, stanno bene con noi e soprattutto non ci danno fastidio: assenza di conflitto. Qui sta il primo limite del termine: offusca il fatto che nelle società contemporanee è basso il livello di integrazione di tutti, autoctoni e non. E’ più di un secolo che sociologia, psicologia, psicanalisi, si impegnano a spiegare come anomia, alienazione, nevrosi, disadattamento, socializzazione scarsa, esclusione, disuguaglianza, disparità, dis.integrazione ecc. siano caratteristiche ampiamente diffuse e, in qualche modo, strutturali. Che il compito di politiche intelligenti sia proprio quello di aumentare il tasso di integrazione di tutti, autoctoni e non. Filosofi come Jürgen Habermas hanno passato la vita ad argomentare sul dato che tutti siamo stranieri ed estranei alle mete di una società, su cui dovremmo invece metterci d’accordo, anche attraverso un [moderato] conflitto. E’ il conflitto a individuare il motore di socialità e di trasformazione, quando non sia distruttivo e disgregatore. Ma chi ne stabilisce questo carattere? Quale autorità riconosciuta ed accettata? Chi definisce a che cosa ci si debba integrare e come? Anche da questi poverissimi accenni si vede bene come l’integrazione riguardi in primo luogo la costituzione di qualsiasi società e pertanto risulti fuorviante e consolatorio applicarla solo ai gruppi di “nuovi venuti”. I quali poi non si sa bene a che cosa esattamente dovrebbero integrarsi. Fino a che punto il “nuovo venuto” deve spingersi per dimostrare di essersi integrato? E se, come spesso succede, non avesse nessuna voglia di integrarsi? E se gli autoctoni, come altrettanto sovente succede, non volessero l’integrazione degli altri, non gradissero cioè la loro frequentazione di scuole, ospedali, mestieri e professioni, ritrovi e chiese [a Torino i cattolicissimi filippini frequentano e si organizzano in una chiesa esclusivamente per loro], ecc.

Più che una parola esplicativa, integrazione è una patata bollente. Usata come feticcio, ma poco indagata. Può addirittura succedere che qualcuno inventi un Integrometro per cercare di “valutare l’integrazione degli stranieri”. Impresa nobile che, tuttavia, impiega con troppa disinvoltura un lessico controverso e non neutro (4).

Se fosse ammissibile sintetizzare in una frase il progetto interculturale, quella del filosofo Gilles Deleuze sarebbe splendida: “inventer un peuple qui manque” (5 ).

el sonido latinoamericano

"Los países latinoamericanos son actualmente resultado de la sedimentación, yuxtaposición y entrecruzamiento de tradiciones indígenas (sobre todo en las áreas mesoamericana y andina), del hispanismo colonial católico y de las acciones políticas, educativas y comunicacionales modernas. Pese a los intentos de dar a la cultura de élite un perfil moderno, recluyendo lo indígena y lo colonial en sectores populares, un mestizaje interclasista ha generado formaciones híbridas en todos los estratos sociales." (6)
Questa riflessione di Canclini ha il suo illuminante rispecchiamento nella musica che si crea nel continente. Irriducibile ad un tratto unico, caratterizzata dall’estrema varietà di linguaggi. Una narrativa di suoni totalmente “polifonica”. In alcuni casi con straordinaria sensibilità alla evoluzione, all’espansione, all’invenzione, alla proliferazione fermentante, si potrebbe dire.


Gilberto Gil

Chiunque metta mano alle produzioni sonore del continente deve poi rincorrerle in giro per il mondo, duplicate, trasformate, ibridate. Oppure cercarle in nicchie speciali alimentate da culti di settore: chi direbbe, qui da noi, che la zamba o la vidalita sono forme musicali e di danza argentine, al pari del tango? Abbiamo scoperto da poco il son cubano grazie a Compay Segundo, basta poco per rilevarne le origini afroamericane e le derivazioni nella salsa. Si può lavorare con la musica elettroacustica, come si diceva qualche decennio fa, e trovare un compositore d’eccelenza, Eduardo Bértola, purtroppo prematuramente deceduto. Heitor Villa-Lobos ha attraversato la musica “colta” del Novecento lasciando il segno, così Alberto Ginastera e tantissimi altri e altre. Di queste ultime meriterebbe di essere conosciuta di più Ana Lara, messicana, e la sua composizione orchestrale Ángeles de llama y hielo. Astor Piazzolla è diventato un’icona mondiale, Yamadu Costa, brasiliano, sa creare figure musicali inedite con la sua chitarra jazz.
Se dico merengue, bachata, mambo, rumba, bossa nova… non ho dubbi di che cosa sto parlando e di quale discorso musicale stia scorrendo. Di quale intercultura sia all’opera. Potrei infilare una dietro l’altra alcune parole e costruire, magari inconsapevolmente, una storia interculturale strepitosa: Marcus Garvey - reggae – rasta – rastafariani – Etiopia - Ras Tafari – Haillé Selassié
Se dico Gilberto Gil, parlo di un musicista o di un ministro? Se scrivo Chico Buarque de Hollanda, sto scrivendo di un musicista o di uno scrittore di fama?
Shakira è una cantante latinoamericana o nordamericana? Atahualpa Yupanqui è un re inca o un musicista argentino? Se ascolto Onda tropical, sto ascoltando una radio di Porto Rico o una radio italiana? Amar es combatir non è uno slogan guevarista, ma il titolo di un album del gruppo rock messicano Mana’, noto in tutto il mondo. Se Carlos Santana suona con Shakira è una stella del pop commerciale? Se suona con Mc Coy Tyner e Harbie Hanckock lo diventa del jazz? Con Bob Dylan del folk-pop? Con se stesso? La messa Egos flos campi di Juan Gutiérrez de Padilla appartiene alla polifonia europea oppure a quella messicana?

E’ chiaro che il viaggio non ha termine. Potremmo ripercorrere all’infinito trame note ed ignote della musica latinamericana (7), ad esplorare le disseminazioni e i contrasti con altre lingue musicali, a scandagliare intrecci, prestiti, scambi, invenzioni, derive, attritu, sovrimpressioni… Insomma, vedere in atto una fluidità interculturale da cui forse si potrebbero dedurre modi e forme del nostro vivere.



note

1 Un bellissimo libro che ricostruisce tutte le vicende legate al quadro di Picasso: “Guernica” di Gijs Van Hensbergen, Il Saggiatore, Milano, 2006.

2 in diversi contesti multiculturale sta ad indicare una precisa politica di governo dell’immigrazione, in cui vengono assegnati diritti e doveri alle “comunità” di migranti in base alla provenienza –pakistani piuttosto che giamaicani-, invece che agli individui. E’ il caso delle politiche applicate in Gran Bretagna e, in modo diverso, nei Paesi Bassi. Come sappiamo, entrambe in crisi

3 Della copiosa bibliografia su questi temi, vorrei segnalare solo: Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2004 e Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Roma, Meltemi, 2004

4 v. www.fieri.it, dove si trovano, per altro, ottime e importanti ricerche sull’immigrazione

5 Gilles Deleuze, Critique et Clinique, Paris, Minuit, 1993, p. 14

6  García Canclini, Néstor (1990), Culturas híbridas. Estrategias para entrar y salir de la modernidad, México, Grijalbo, p.71, trad. italiana Guerini, Milano, 1998 .
Approfondimenti e sviluppi in:
-Santiago Castro-Gómez, Latinoamericanismo, modernidad, globalización Prolegómenos a una crítica poscolonial de la razón, leggibile in www.ensayistas.org/critica/teoria/castro/castroG.htm
-Jose Luis Gomes-Martinez,
"Mestizaje" y "Frontera" como categorías
culturales iberoamericanas
, in Estudios interdisciplinarios de America Latina y el Caribe, 1994 , leggibile in www.tau.ac.il/eial/V_1/martinez.htm
-Walter D. Mignolo (con Arturo Escobar). Coloniality and the De-Colonial Reason, in Cultural Studies, Dicembre, 2006.
-Claudia Andrea Gotta,
Globalizacion, Etnicidad y Saberes
Subalternizados
, in Dialogos Latinoamericanos, 007, 2003, leggibile in:
http://redalyc.uaemex.mx/redalyc/pdf/162/16200703.pdf

7 vedi: Frances R. Aparicio e Candida F.Jaquez [curatori], Musical Migrations: Transnationalism and Cultural Hybridity in Latin/o America, Vol. I, New York, Palgrave Macmillan, 2003

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