Jiří Kolář
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Il Manifesto del 26 maggio 2010
Nel momento in cui scrive questa raccolta di poesie e prose siamo in pieno stalinismo cecoslovacco ovvero sotto un’Ombra che oscura le esistenze e non si limita a deplorare le intemperanze poetiche, ma trafigge direttamente i corpi, quello dello storico comunista Záviš Kalandra, impiccato per il suo “trozkismo”, dopo sei anni di internamento nazista, quello di Milana Horáková, giurista, resistente antinazista, anche lei appesa ad una corda politicamente corretta. Perseguitato e braccato Karel Teige, il grande teorico dell’avanguardia, invece se ne muore di crepacuore sulle scale di casa.
“Angoscia/ nera angoscia gelata/ cresce in me come un tramonto di novembre/ angoscia della parola viva/ deposta in una bara/ circondata di immagini sacre e fiori/ senza forza senza speranza” : sarà questa deposizione della parola a far deviare l’artista verso una poesia oculare rappresentata dai suoi collages. Abbraccia un silenzio fonetico per dedicarsi alla visualità, con una intuizione più che adeguata ai tempi. Nel 1950, in Il fegato di Prometeo, sono ancora le parole a tentarlo, perciò mette in scena un teatro di voci che compongono e scompongono testi e narrazioni altrui [Thomas Stearns Eliot, Ladislav Klíma, Zofia Nałkowska] cercando di alimentare una parola che costruisca la realtà piuttosto che ridursi alla sua rappresentazione. Una fabbrica effettiva in cui i pezzi vengono modificati, variati, scombinati, riprodotti incessantemente da altre mani, da altre voci in un collage, confrontage, intercalage, senza fine. Perché il muro che ha di fronte è lo stalinismo dell’anima, oltre quello materiale e tangibile dei corpi ingabbiati e fucilati, generatore di menzogna universale, di falsità irriducibili, “siamo gli uomini impagliati”.
Leggendolo siamo propensi a pensare che lo sgranocchiamento del fegato, la disintegrazione della realtà e del linguaggio che Kolář ci esibisce, siano collocati in una memoria evaporata, in un freddo passato. Invece, come in un album di disegno per bambini, ci sono parti ancora da colorare: La democrazia non ha entusiasti, fanatici, veri soldati, la democrazia ha persone, e a questo modo ciò potrebbe significare la sua rovina…Nella democrazia crescono persone amareggiate, passive, titubanti, perché credono più alla realtà che al sogno…”. Dove abbiamo messo i colori? continuiamo a chiederci.
Dammi il potere del sorriso muto dell’albero in primavera così riusciremo a rispondere in modo inatteso alla tua domanda necessaria: “Gli uomini sono ancora esseri umani?”.
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