da QUADERNI VIETNAMITI , Torino, Centro di studi vietnamiti/Biblioteca Enrica Collotti Pischel, n. 6/7, 2008
CLAUDIO CANAL
SOGNI E INCUBI
NAZIONI, NAZIONALITA’, GUERRA IN BIRMANIA/MYANMAR
Il paradosso birmano
Le manifestazioni dell’autunno del 2007 in Birmania hanno mostrato agli occhi del mondo un conflitto tra regime militare e popolazione di cui in Europa si aveva una conoscenza approssimativa. La visibilità e l’immagine “esotica” dei monaci per le strade e la dura repressione che ne è seguita hanno suscitato un vivo interesse, che si è però rapidamente estinto nel momento in cui i media nazionali e internazionali hanno cessato di fornire notizie. L’immagine che si è sedimentata è quella in cui gli attori principali sarebbero i monaci buddisti con una parte della popolazione, da un lato, e i militari al potere, dall’altro. Come tutte le rappresentazioni semplificate anche questa contiene qualche verità, ma nasconde il nucleo storico sostanziale che caratterizza questo paese e le tensioni che lo attraversano.
Per rendersene conto è sufficiente prendere in esame il nome Burma, dato dagli inglesi nel periodo coloniale, che la giunta militare nel 1989 ha cambiato in Myanmar, con l’intento di esorcizzare il passato coloniale. I due termini in realtà sono solo differenti pronunce, la prima più colloquiale, la seconda più letteraria, della medesima unità linguistica, che, anche in epoca precoloniale, stava ad indicare le popolazioni delle pianure parlanti la lingua birmana. Le altre numerose popolazioni residenti in quello che oggi è lo Stato birmano - invenzione del colonialismo inglese - non si sono mai riconosciute nei due termini. A livello internazionale si tenta, senza troppa convinzione, di stabilire una differenza tra Burmese, riferito a tutte le popolazioni abitanti la Birmania e Burman alla popolazione maggioritaria parlante birmano[1]. Il nome stesso, dunque, si presenta con connotazioni fortemente politiche e rivela che il vero problema che caratterizza la Birmania/Myanmar è l’essere uno Stato plurinazionale o, detto in modo più tradizionale, con una grande presenza di minoranze.
Più di cento lingue riconosciute e altrettanti gruppi e sottogruppi “etnici”[2]. Un vero “paradiso” per gli antropologi, un “museo” a cielo aperto. A titolo indicativo: i Birmani hanno nove sottogruppi, i Chin ne hanno 53, i Kachin 12, i Karen/Kayin 11, Karenni/Kayah con 9, i Mon non hanno sottogruppi, gli Shan 33, gli Arakan/Rakhine 7. La stessa divisione amministrativa della Birmania in quattordici regioni, sette Divisioni e sette Stati “etnici”, rende palese la sua natura composita. Pochissime aree possono considerarsi “etnicamente” omogenee. Le cifre sulla consistenza delle popolazioni sono inattendibili perché sia il governo sia i rappresentanti dei gruppi non birmani le modificano per motivi politici, gli uni per rafforzare l’idea di una popolazione maggioritaria e egemone, gli altri per affermare la propria consistenza [3]. Possiamo quindi interpretare l’attuale Birmania come uno Stato etnocratico in cui una nazionalità è diventata dominante a livello governativo e militare e pratica la ”birmanizzazione” del resto della società[4]. Ciò in contrasto con la situazione coloniale in cui le popolazioni delle Excluded Areas o Frontier Areas erano addestrate militarmente dagli Inglesi e maggiormente favorite rispetto a quelle della Burma Proper, della Birmania vera e propria. Non deve ingannare la dicitura di Stato riferita alle sette unità territoriali e amministrative “etniche”, Stato Shan, Stato Kachin ecc.: il termine impiegato è il birmano pyi-neh, che non rimanda alla semantica così densa che il termine Stato ha nella tradizione politica occidentale, bensì ad una unità amministrativa e territoriale “debole”, dipendente comunque da un’autorità centrale situata altrove[5].
Quali siano state le relazioni tra potere centrale e realtà locali dopo l’indipendenza, sarà l’oggetto delle riassuntive pagine che seguono[6].
CLAUDIO CANAL
SOGNI E INCUBI
NAZIONI, NAZIONALITA’, GUERRA IN BIRMANIA/MYANMAR
Il paradosso birmano
Le manifestazioni dell’autunno del 2007 in Birmania hanno mostrato agli occhi del mondo un conflitto tra regime militare e popolazione di cui in Europa si aveva una conoscenza approssimativa. La visibilità e l’immagine “esotica” dei monaci per le strade e la dura repressione che ne è seguita hanno suscitato un vivo interesse, che si è però rapidamente estinto nel momento in cui i media nazionali e internazionali hanno cessato di fornire notizie. L’immagine che si è sedimentata è quella in cui gli attori principali sarebbero i monaci buddisti con una parte della popolazione, da un lato, e i militari al potere, dall’altro. Come tutte le rappresentazioni semplificate anche questa contiene qualche verità, ma nasconde il nucleo storico sostanziale che caratterizza questo paese e le tensioni che lo attraversano.
Per rendersene conto è sufficiente prendere in esame il nome Burma, dato dagli inglesi nel periodo coloniale, che la giunta militare nel 1989 ha cambiato in Myanmar, con l’intento di esorcizzare il passato coloniale. I due termini in realtà sono solo differenti pronunce, la prima più colloquiale, la seconda più letteraria, della medesima unità linguistica, che, anche in epoca precoloniale, stava ad indicare le popolazioni delle pianure parlanti la lingua birmana. Le altre numerose popolazioni residenti in quello che oggi è lo Stato birmano - invenzione del colonialismo inglese - non si sono mai riconosciute nei due termini. A livello internazionale si tenta, senza troppa convinzione, di stabilire una differenza tra Burmese, riferito a tutte le popolazioni abitanti la Birmania e Burman alla popolazione maggioritaria parlante birmano[1]. Il nome stesso, dunque, si presenta con connotazioni fortemente politiche e rivela che il vero problema che caratterizza la Birmania/Myanmar è l’essere uno Stato plurinazionale o, detto in modo più tradizionale, con una grande presenza di minoranze.
Più di cento lingue riconosciute e altrettanti gruppi e sottogruppi “etnici”[2]. Un vero “paradiso” per gli antropologi, un “museo” a cielo aperto. A titolo indicativo: i Birmani hanno nove sottogruppi, i Chin ne hanno 53, i Kachin 12, i Karen/Kayin 11, Karenni/Kayah con 9, i Mon non hanno sottogruppi, gli Shan 33, gli Arakan/Rakhine 7. La stessa divisione amministrativa della Birmania in quattordici regioni, sette Divisioni e sette Stati “etnici”, rende palese la sua natura composita. Pochissime aree possono considerarsi “etnicamente” omogenee. Le cifre sulla consistenza delle popolazioni sono inattendibili perché sia il governo sia i rappresentanti dei gruppi non birmani le modificano per motivi politici, gli uni per rafforzare l’idea di una popolazione maggioritaria e egemone, gli altri per affermare la propria consistenza [3]. Possiamo quindi interpretare l’attuale Birmania come uno Stato etnocratico in cui una nazionalità è diventata dominante a livello governativo e militare e pratica la ”birmanizzazione” del resto della società[4]. Ciò in contrasto con la situazione coloniale in cui le popolazioni delle Excluded Areas o Frontier Areas erano addestrate militarmente dagli Inglesi e maggiormente favorite rispetto a quelle della Burma Proper, della Birmania vera e propria. Non deve ingannare la dicitura di Stato riferita alle sette unità territoriali e amministrative “etniche”, Stato Shan, Stato Kachin ecc.: il termine impiegato è il birmano pyi-neh, che non rimanda alla semantica così densa che il termine Stato ha nella tradizione politica occidentale, bensì ad una unità amministrativa e territoriale “debole”, dipendente comunque da un’autorità centrale situata altrove[5].
Quali siano state le relazioni tra potere centrale e realtà locali dopo l’indipendenza, sarà l’oggetto delle riassuntive pagine che seguono[6].
Nella fase postcoloniale molte società hanno intrapreso la strada del conflitto e della violenza. Anche per la Birmania il peso del passato coloniale è stato particolarmente determinante. Il Regno Unito non si è mai assegnato il compito di costruire uno Stato birmano: dal 1886 al 1937 la Birmania è stata una mera appendice dell’India colonizzata, da cui sono state incentivate massicce immigrazioni di indiani una parte dei quali musulmani, ancora oggi tra le minoranze meno considerate e accettate. La destrutturazione radicale delle tradizionali impalcature del potere locale praticata dagli inglesi nella zona centrale del Paese si è trasformata in un vuoto di governo e di legittimità al momento dell’indipendenza (1948).
La profonda differenziazione tra l’amministrazione di queste ultime aree, in cui una parvenza di organismo parlamentare collaboratore venne messa in atto, e le aree “di frontiera”, quelle a prevalenza non-birmana, lasciate almeno nominalmente alle autorità locali, incise profondamente nel dualismo “etnico” di poteri, strutture ed economie che ancora oggi caratterizza il paese. Un “ordine senza senso” l’ha definito Aung-Thwin in un importante articolo[7].
Come sappiamo dalla storia balcanica, la Seconda Guerra Mondiale ha sconvolto molte alleanze e radicalizzato fino agli estremi le differenze culturali e linguistiche. La Birmania è stata all’epoca uno dei principali fronti in cui si sono scontrati Giappone e Alleati e i birmani (in senso ampio) hanno cercato di giocare le loro carte. Il Burma Indipendent Army (BIA), guidato da Aung San, futuro “padre dell’indipendenza” - padre di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader dell’opposizione alla giunta militare - si schierò con gli occupanti giapponesi, mentre i gruppi Kachin, Karen, Chin e altri mantennero la loro lealtà verso gli inglesi, combattendo al loro fianco. Solo verso la fine della guerra il BIA cambierà fronte, schierandosi con gli “Alleati”. Il trauma di questa guerra civile al seguito delle potenze occupanti non è stato metabolizzato e la raggiunta indipendenza ha aperto una ulteriore fase di conflitto armato interno che non si è ancora conclusa. Nessun elemento isolato può spiegare efficacemente questa “dedizione” alla guerra, neppure il ruolo fondamentale avuto dal Partito Comunista Birmano (fondato nel 1939 e collassato nel 1990) nel convogliare diverse aspirazioni nazionaliste. Il “paradosso birmano”, come ama dire Martin Smith, sta proprio in questo adattamento alla guerra come continuum e non come momento di rottura, come condizione di vita in cui tutti cercano e spesso trovano un sistema alternativo di profitto, di potere e anche di protezione. Nonostante la virulenza dello scontro militare alla fine sul campo di battaglia non ci sono vincitori né vinti. In qualche caso prolungare la guerra può avere una priorità più alta del vincerla. Si può interpretare questa stabilità del modello conflittuale birmano come una regressione oppure, e meglio, come una trasformazione sociale che riflette le complessità politiche che tentano di emergere entro un sistema di bipolarizzazione: da una parte la militarizzazione dello Stato centrale, dall’altra la via insurrezionale come forma di vita.
Se guardiamo all’oggi il conflitto vede come protagonisti: il governo militare del Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC), il Committee Representing People's Parliament (CRPP), coalizione di dieci partiti delle minoranze, guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD della leader Aung San Suu Kyi), i nove partiti dell’Alleanza delle Nazionalità Unite (UNA), 28 gruppi “etnici” che hanno accettato l’armistizio e amministrano il loro territorio con l’accordo del SPDC, una dozzina o forse più di gruppi “etnici” che restano in armi contro il governo centrale. Con la rivolta dell’autunno 2007 si deve inserire anche la sangha, la comunità buddista (birmana in senso stretto) e alcuni incipienti movimenti politici, come il 88 Generation Students.
Dall’ordine senza senso al disordine sensato
La complessità del sistema di conflitto risulta così evidente: autorità parallele sono efficacemente installate nei loro territori e governano i loro quasi Stati con o senza il consenso del governo centrale il quale militarizza i suoi organismi, sia nel senso di rafforzare l’esercito, noto in birmano come Tatmadaw (che ha superato di gran lunga le 400.000 unità ed è distribuito in un numero crescente di caserme lungo tutto il paese) sia intensificandone il ruolo di gestore diretto dell’economia, quella legale e quella dei traffici illegali, dando anche spazio ad organizzazioni politico-paramilitari come l’USDA (Union Solidarity and Development Association, creata nel 1993; nel 2003 ha tentato di eliminare fisicamente Aung San Suu Kyi)[8]; a lato si sviluppano, intrecciando alleanze ora con il Tatmadaw, ora con le organizzazioni armate locali, clan politico-militari, veri signori della guerra che gestiscono i traffici illegali di droghe - oppio e metanfetamine -, legnami pregiati, gemme preziose, esseri umani destinati alla prostituzione o come manodopera all’estero[9].
Riprendendo la formula prima citata dell’ordine senza senso del periodo coloniale, Martin Smith propone di rovesciarla per interpretare il presente come un disordine sensato. Ripercorrendo le varie fasi del conflitto interno birmano Smith individua una precisa cronologia dei cicli conflittuali che ben evidenzia la non staticità del modello e le sue continue trasformazioni.
1948-58: la famosa conferenza di Panglong nel febbraio del 1947 pur raggiungendo alcuni punti di accordo non riesce a superare le divergenze politiche tra i diversi protagonisti, i nazionalisti birmani e i rappresentanti di alcuni gruppi “etnici”. I progetti di nuova costituzione non sono esplicitamente federalisti e l’assassinio di Aung San nel 1947 rende tutto più difficile. L’insurrezione di alcune regioni, guidata dal Partito Comunista e da altre forze locali, si trasforma in guerra civile con decina di migliaia di morti. La più consistente organizzazione, la Karen National Union, tenta un approccio pacificatore con il primo ministro U Nu e il gen. Ne Win, senza risultato. Anche nelle “zone liberate” il problema di unificare le diverse componenti si fa arduo perché il nazionalismo etnico, che rifiuta di essere minoranza, a sua volta non riesce a riconoscere le proprie minoranze. Lo stazionamento e i traffici delle truppe del Kuomingtang (KMT) di Chiang Kai-shek nello Stato Shan, ai confini con la Cina, militarizzano ancora di più i rapporti. Il risultato complessivo è che il Tatmadaw, diventa il fulcro del governo centrale e il “salvatore” dell’Unione birmana.
1958-67: Il Tatmadaw si trasforma nella più importante organizzazione economico-commerciale del paese e i soldati da combattenti in costruttori dello Stato. Il colpo di Stato del gen. Ne Win nel 1962 non fa che sanzionare questo passaggio e, nello stesso tempo, esclude ogni fattibilità alle richieste di federalismo che alcuni leader delle nazionalità cominciavano a proporre. La sua Via birmana al socialismo radicalizza lo scontro. Anche aree fino ad allora leali al governo si spostano su posizioni insurrezionali e nuove organizzazione armate nascono ovunque.
1968-75: è la fase della più aggressiva birmanizzazione del paese. La nuova Costituzione, promulgata nel 1974, cristallizza in una astratta simmetria la struttura del paese con le sette più sette regioni di cui si è accennato all’inizio. Il sostegno dato dalla Cina al Partito Comunista birmano ne permette la rivitalizzazione della presenza e il successo presso altre organizzazioni “etniche”, mentre la Thailandia sostiene in funzione anticinese/anticomunista i vari Stati cuscinetto che si vengono costituendo a cavallo dei confini birmano-thailandesi.
1976-88: Le tre più forti organizzazioni “etniche” – Karen National Union (KNU), Kachin Indipendence Organization (KIO), Shan State Army (SSA) - sono in grado di affrontare in campo aperto l’esercito birmano. Le operazioni di censimento condotte in modo poliziesco dal governo centrale nel nord dello stato Rakhine, a maggioranza musulmana, provoca nel 1978 l’esilio in Bangladesh di 200.000 persone. Khun Sa - noto signore della guerra, probabilmente morto nel 2007 - costituisce un esercito di 15.000 uomini, il Mong Thai Army, che controlla il traffico di oppio verso la Thailandia. I contrasti con il Partito Comunista spingono molte organizzazioni “etniche” nel 1976 a confederarsi nel National Democratic Front. Il preteso socialismo birmano del gen. Ne Win è in pieno fallimento, economico e politico. Le dimostrazioni degli studenti dell’agosto del 1988, ferocemente represse dal Tatmadaw, portano alla costituzione dello SLORC (Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine).
1988-oggi: il socialismo birmano cambia maschera, le elezioni del 1990 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) e dai 19 partiti “etnici” costituiti per l’occasione non vengono riconosciute dallo SLORC. Gli scontri armati aumentano nelle regioni “etniche”, moltissime persone fuggono dalle zone di guerra nei campi profughi ai confini. Si viene ricostituendo una triangolazione di attori politici: la giunta militare, SLORC, successivamente nominata Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC), la NLD con Aung San Suu Kyi come leader e i gruppi etnici, variamente coalizzati. Lo stallo politico viene infranto quasi casualmente nel 1989 con le prime proposte di cessate il fuoco del gen. Khin Nyunt, che vengono via via accolte da diverse organizzazioni in armi. I loro leaders mantengono il controllo del territorio e dell’economia di frontiera e si pongono come protagonisti dei futuri ed eventuali processi di pace, che non vengono così lasciati totalmente nelle mani della NLD di Aung San Suu Kyi, ridotta ad icona simbolica dalla detenzione imposta dalla giunta militare. Si assiste dunque all’emersione di una specie di iniziativa tripartita ancora balbettante, che le manifestazioni dell’autunno 2007 hanno rafforzato e che le iniziative della giunta (“road map” per la democrazia, nuova Costituzione, referendum…) tendono invece ad indebolire.
Nonostante la durezza del conflitto si può dire che si è raggiunta la fase post guerra civile, in cui non c’è più la guerra e non c’è ancora la pace? Gli analisti non si sbilanciano. In tutto il mondo la guerra ha perso le sue caratteristiche note e ne ha inglobate altre, come ci ha ricordato Mary Kaldor[10]. Si può tentare di formalizzare in qualche modo il rapporto tra potere centrale e poteri locali, tra Stato e “Stati etnici”, tra asoya e pyi-neh, come si direbbe in birmano. Mary P. Callahan ha individuato i seguenti modelli[11]:
a) Quasi devolution: aree dello Stato Shan: i primi due gruppi ad aver accettato il cessate il fuoco ora amministrano le loro “regioni speciali” in modo quasi del tutto autonomo dallo SPDC. Sono collocati in aree molto distanti dai maggiori centri birmani e le loro economie sono profondamente integrate con quelle transfrontaliere della Cina.
Regione speciale 1: Kokang, montagne impoverite nonostante la contestata coltivazione dell’oppio e i nuovi casinò del capoluogo Lukkai. Popolazione di lingua cinese.
Regione speciale 2: Wa, 600.000 abitanti amministrati dall’ex United Wa State Army che non va tanto per il sottile con le popolazione non-Wa. L’economia dell’oppio, che era stata avviata dal Kuomingtang sostenuto dalla CIA, si è trasformata ed estesa alla produzione di yaba-metanfetamine. Nonostante la completa autonomia resta una regione speciale e non uno Stato come vorrebbe il nazionalismo etnico[12].
b) Occupazione ed esclusione: all’altro estremo del sistema di rapporti Stato centrale/Stati periferici si colloca lo Stato Rakhine (o Arakan) che ospita due gruppi di popolazione, uno buddista che parla una variante del birmano, l’altro, i Rohingya, musulmano che parla bengali. A questi non è mai stata riconosciuta alcuna forma di cittadinanza birmana perché considerati stranieri. Tale diritto può essere riconosciuto solo quando essi dimostrino di avere antenati residenti da prima del 1826. Esodi di massa verso il Bangladesh hanno caratterizzato anche in anni recenti (1991/92) i Rohingya. La loro area è strettamente controllata da una polizia speciale, nota come Nasaka, e il lavoro forzato è abitualmente imposto. L’Arakan Liberation Party, l’Arakan Rohingya National Organization e la Rohingya Solidarity Organization non hanno aderito al cessate il fuoco[13].
Occupazione: guerra deterritorializzata: la tattica controinsurrezionale dell’esercito birmano ha costretto diverse organizzazioni armate a muoversi sul territorio, a nascondersi per poi attaccare con l’effetto sorpresa. I civili stanno in mezzo oppure fuggono massicciamente ai confini con la Thailandia.
Aree Karen: Il Karen National Union (KNU) è stato fin dall’epoca coloniale la più significativa e più addestrata militarmente organizzazione dei Karen, in maggioranza cristiani. Ha subito nel 1994 una scissione con il costituirsi del Democratic Karen Buddhist Army (DKBA) che, oltre al paradosso di essere un esercito buddista, è diventato forza d’appoggio della giunta militare.
Stato Kayah: il più piccolo degli Stati dell’Unione, devastato dal frazionamento dei gruppi armati, alcuni sottoscrittori del cessate il fuoco, altri ancora in combattimento sia contro il Tatmadaw sia contro i gruppi concorrenti. Risultato: su circa 260,000 abitanti, 22.000 vivono in campi profughi in Thailandia e 90.000 sono profughi interni[14].
c) Coesistenza: realizzata in varie forme che, in linea generale, dipendono dalle opportunità economiche dell’area. Se alte, la leadership locale si oppone all’intervento centrale.
Rassegnazione: Stato Chin il più povero degli Stati, gli oppositori sono fuggiti nella confinante India. La gravosa presenza delle truppe birmane ha sconvolto la struttura di potere locale e il proselitismo buddista incentivato dalla giunta ha sconcertato la popolazione, in maggioranza cristiana[15].
Accordo: Stato Kachin: due organizzazioni armate hanno sottoscritto il cessate il fuoco in questo Stato di un milione e mezzo di abitanti, la Kachin Independence Organization (KIO) e il New Democratic Armi, Kachin (NDA-K), che adesso controllano separatamente due porzioni del territorio, micro Stati dentro un sub Stato. La presenza non lieve di imprese di estrazione cinesi fa dire a molti kachin di essere occupati da sud, la Birmania, e da nord, la Cina[16].
Accettazione pragmatica: L’Organizzazione nazionale Pao: mezzo milione di Pao abitano il sud dello Stato Shan e altri 100.000 sono sparsi nelle regioni confinanti. Fin dall’indipendenza hanno combattuto sia contro lo Stato Shan sia contro lo Stato Birmano. Le diverse organizzazioni amate hanno sottoscritto il cessate il fuoco e la Pao National Organization (PNO) controlla la Regione Speciale n. 6 muovendosi in modo decisivo sia sul piano economico che in quello educativo.
Nessuno dei modelli di rapporto Stato/”Stati locali” è immodificabile. Non regna l’ordine, regna una fragile stabilità sempre minacciata da un improvviso ricorso alla violenza. Il carattere non monolitico di questo rapporto ci deve mettere in guardia da facili conclusioni sulle possibili evoluzioni del paese.
Accordo: Stato Kachin: due organizzazioni armate hanno sottoscritto il cessate il fuoco in questo Stato di un milione e mezzo di abitanti, la Kachin Independence Organization (KIO) e il New Democratic Armi, Kachin (NDA-K), che adesso controllano separatamente due porzioni del territorio, micro Stati dentro un sub Stato. La presenza non lieve di imprese di estrazione cinesi fa dire a molti kachin di essere occupati da sud, la Birmania, e da nord, la Cina[16].
Accettazione pragmatica: L’Organizzazione nazionale Pao: mezzo milione di Pao abitano il sud dello Stato Shan e altri 100.000 sono sparsi nelle regioni confinanti. Fin dall’indipendenza hanno combattuto sia contro lo Stato Shan sia contro lo Stato Birmano. Le diverse organizzazioni amate hanno sottoscritto il cessate il fuoco e la Pao National Organization (PNO) controlla la Regione Speciale n. 6 muovendosi in modo decisivo sia sul piano economico che in quello educativo.
Nessuno dei modelli di rapporto Stato/”Stati locali” è immodificabile. Non regna l’ordine, regna una fragile stabilità sempre minacciata da un improvviso ricorso alla violenza. Il carattere non monolitico di questo rapporto ci deve mettere in guardia da facili conclusioni sulle possibili evoluzioni del paese.
Il Grande ospite
Il sigaro s’è consumato.
Il sole è scuro.
Qualcuno mi porterà a casa?
Scriveva il poeta birmano Tin Moe, morto in esilio nel 2007.
Ognuno può cercare la propria via di accesso alla poesia così come alla Birmania, paese di meraviglie e di sofferenza.
-------------------------------
[1] Discussione del tema in Houtman Gustaaf, Remaking Myanmar and Human Origin, in Anthropology Today, 4.1999; sinteticamente in http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/magazine/7013943.stm.
Il sigaro s’è consumato.
Il sole è scuro.
Qualcuno mi porterà a casa?
Scriveva il poeta birmano Tin Moe, morto in esilio nel 2007.
Ognuno può cercare la propria via di accesso alla poesia così come alla Birmania, paese di meraviglie e di sofferenza.
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[1] Discussione del tema in Houtman Gustaaf, Remaking Myanmar and Human Origin, in Anthropology Today, 4.1999; sinteticamente in http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/magazine/7013943.stm.
[2] L’uso virgolettato di “etnia” ed “etnico” vuole, in assenza di un sintetico termine equivalente, mettere ancora una volta in guardia dal carattere di costrutto coloniale del termine stesso. L’osservazione, com’è ovvio, vale per qualsiasi contesto. Per la Birmania abbiamo il pionieristico lavoro di Edmund R. Leach in cui il carattere non “innato”, ma adattivo, interscambiabile, della etnicità è dimostrato appieno: Sistemi politici birmani, Struttura sociale dei Kachin, Milano, Franco Angeli, 1979, edizione originale inglese del 1954.
[3] TIN MAUNG MAUNG THAN fornisce interessanti dati sulla distribuzione etnica interna ai vari “Stati” e la distribuzione delle confessioni religiose, in Dreams and Nightmares: State Building and Ethnic Conflict in Myanmar” in K. SNITWONGSE K., SCOTT THOMPSON W., Ethnic Conflict in Southeast Asia, Singapore, Institute of Southeast Asian Studies, 2005.
[4] BROWN DAVID, The ethnocratic state and ethnic separatism in Burma, in BROWN DAVID, The State and Ethnic Politics in Southeast Asia, London, Routledge, 1994.
[5] Precisa questa terminologia CALLAHAN MARY P., Political Authority in Burma’s Ethnic Minority States: Devolution, Occupation, and Coexistence, East-West Center Washington, 2007, pagg. IX- XI.
[6] Si rimanda alla bibliografia che segue per chi volesse approfondire gli aspetti specifici del rapporto: il lavoro più cospicuo su questo tema resta quello di SMITH MARTIN, Burma, Insurgency and the Politcs of Ethnicity, Dhaka, Bangkok, London, Zed Books, 1999; Smith è poi intervenuto con altri contributi, più sintetici e di aggiornamento, tra cui, State of Strife: The Dynamics of Ethnic Conflict in Burma, East-West Center Washington, 2007; Conflict and illegality as a way of life: the paradox of Burma, Newsletter n. 42, ottobre 2006, International Institute for Asia Studies, Leiden, consultabile in www.iias.nl/nl/42/IIAS_NL42_02.pdf; con CHIZONM EKEH, Minorities in Burma, ottobre 2007, Minority Rights Group International, consultabile in www.minorityrights.org/?lid=3546 ; altri interventi di rilievo: KYAW YIN HLAING, Power and factional struggles in postindinpendence Burmese governments, in Journal of Southeast Asian Studies, 39(1), 2008 basato su diverse interviste a funzionari e imprenditori birmani; in una interessante prospettiva comparativa, ZUBAIDAH RAHIM LILY Whose Imagined Community? The Nation-State, Ethnicity and Indigenous Minorities in Southeast Asia, United Nations Research Institute for Social Development, 2001, http://www.unrisd.org/ ; CHAO-TZANG YAWNGHWE, Conflict in Burma: Ethnic or political, 2004, in http://eng.chro.org/index.php?option=com_content&task=view&id=92&Itemid=29 ; HOLLIDAY IAN, National Unity Struggles in Myanmar: A Degenerate Case of Governance for Harmony in Asia, in Asia Survey, 3/2007; l’eccellente sintesi di STEINBERG DAVID, Myanmar’s Minority Conundrum: Issues of Ethnicity and Authority, Japan Institute of International Affairs, 2003, leggibile in www.burmalibrary.org/show.php?cat=917 ;
SOUTH ASHLEY, Political Transition in Myanmar: A new model for Democratization, in Contemporary Southeast Asia, 2/2004, leggibile in www.europe-solidaire.org/spip.php?article3965
Molto importante: ARDETH MAUNG THAWNGHMUNG, Rural perceptions of State legitimacy in Burma/Myanmar, in Journal of Peasant Studies, 2/2003.
SOUTH ASHLEY, Political Transition in Myanmar: A new model for Democratization, in Contemporary Southeast Asia, 2/2004, leggibile in www.europe-solidaire.org/spip.php?article3965
Molto importante: ARDETH MAUNG THAWNGHMUNG, Rural perceptions of State legitimacy in Burma/Myanmar, in Journal of Peasant Studies, 2/2003.
[7] AUNG-THWIN, MICHAEL. British ‘Pacification’ of Burma: order without meaning, in Journal of South East Asian Studies, 2, 1985.
[9] il Burma Briefing dell’Asian Center for Human Rights, 2005, in http://www.achrweb.org/,
CHOUVY PIERRE-ARNAUD, L’importance du facteur politique dans le développement du Triangle d’or et du Croissant d’or, in Cahiers d’études sur la Méditerranée orientale et le monde turco-iranienne, n. 32, 2001, leggibile in www.pa-chouvy.org/indexarticles.html. Di Chouvy, nello stesso sito, si trova The yaa-baa phenomenon in Mainland Southeast Asia, in Harvard Asia Pacific Review, 2/2005, leggibile sul sito precedente; sui traffici dei legnami si veda A Conflict of Interests - The uncertain future of Burma’s forests, A Briefing Document by Global Witness. October 2003, Choice for China: Ending the destruction of Burma's frontier forests, 2005 leggibili entrambi in www.globalwitness.org/media_library.php?campaign_id=52&filter=reports_documents&ml_lang=en
Vedi il sito Ruby-Sapphire, www.ruby-sapphire.com/sitemap.htm . Vedi le risorse segnalate dal sito PeaceWomen, dedicato alla Birmania, in www.peacewomen.org/resources/burma/burmaindex.html . Si veda il sito del Burma Lawyers’ Council e la loro rivista Legal Issues on Burma Journal: http://www.blc-burma.org/
CHOUVY PIERRE-ARNAUD, L’importance du facteur politique dans le développement du Triangle d’or et du Croissant d’or, in Cahiers d’études sur la Méditerranée orientale et le monde turco-iranienne, n. 32, 2001, leggibile in www.pa-chouvy.org/indexarticles.html. Di Chouvy, nello stesso sito, si trova The yaa-baa phenomenon in Mainland Southeast Asia, in Harvard Asia Pacific Review, 2/2005, leggibile sul sito precedente; sui traffici dei legnami si veda A Conflict of Interests - The uncertain future of Burma’s forests, A Briefing Document by Global Witness. October 2003, Choice for China: Ending the destruction of Burma's frontier forests, 2005 leggibili entrambi in www.globalwitness.org/media_library.php?campaign_id=52&filter=reports_documents&ml_lang=en
Vedi il sito Ruby-Sapphire, www.ruby-sapphire.com/sitemap.htm . Vedi le risorse segnalate dal sito PeaceWomen, dedicato alla Birmania, in www.peacewomen.org/resources/burma/burmaindex.html . Si veda il sito del Burma Lawyers’ Council e la loro rivista Legal Issues on Burma Journal: http://www.blc-burma.org/
. BELAK BLENDA, Double Jeopardy: Abuse of Ethnic Women's Rights in Burma in Cultural Survive, 2/2001 leggibile in www.strategicnetwork.org/index.php?loc=kb&view=v&id=4976&printerfriendly=Y&lang=
v. il sito Humantrafficking www.humantrafficking.org/countries/burma
v. il sito Salween Watch sulla indiscriminata costruzione di dighe: http://www.salweenwatch.org/
v. il sito Humantrafficking www.humantrafficking.org/countries/burma
v. il sito Salween Watch sulla indiscriminata costruzione di dighe: http://www.salweenwatch.org/
BOUCAUD ANDRE’ E LOUIS, Paranoia, repressione e malaffare, in Le monde Diplomatique, nov. 2006, leggibile in www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Novembre-2006/pagina.php.
[10] “…questo nuovo tipo di violenza rende sempre meno chiare le tradizionali distinzioni tra guerra (di solito definita come violenza fra stati e tra gruppi politici organizzati, per motivi politici), crimine organizzato (la violenza di gruppi privati organizzati per scopi privati, in genere di natura economica) e violazione su larga scala di diritti umani (la violenza di stati o di gruppi politici organizzati contro gli individui)” KALDOR MARY, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci editore, Roma, 1999, pagg. 11-12.
[11] CALLAHAN M, Political Authority…, cit. pagg. 24-54
[12] PATHAN DON, Wither the Wa? In Irrawaddy, 10.2005, leggibile in http://www.irrawaddy.org/
; KRAMER TOM, The United Wa State Party. Narco-Army or ethnic nationalist party? East-West Center, Washington, 2007.
[13] BOUTET ANNABEL, Le drame des musulmans de Birmanie, in Meridione, 1.2/2003; LEIDER JACQUES, L’islam birman en danger de radicalisation, in Les Cahiers de l’Orient n. 78/2005; il rapporto Amnesty International: The Rohingya Minority: Fundamental Rights denied, leggibile in www.amnesty.org/en/library/info/ASA16/005/2004;
TEN VEEN RIANNE, Myanmar’s Muslims. The Oppressed of the Oppressed, 2005, Islamic Human Rights Commission, Londra, leggibile in www.ihrc.org.uk/file/05OCTMyanmarPRoof.pdf,
vedi il video relativo in: www.youtube.com/watch?v=9kIP-tU89QA&feature=related;
vedi anche i siti: http://www.rakhapura.org/, http://www.arakananc.org/, http://www.rohingya.org/
vedi anche i siti: http://www.rakhapura.org/, http://www.arakananc.org/, http://www.rohingya.org/
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[14] v. Dammed by Burma’s Generals. The Karenni Experience with Hydropower Development .From Lawpita to the Salween, A report by the Karenni Development Research Group, 2006, leggibile in http://internationalrivers.org/files/BurmasGenerals.pdf
[14] v. Dammed by Burma’s Generals. The Karenni Experience with Hydropower Development .From Lawpita to the Salween, A report by the Karenni Development Research Group, 2006, leggibile in http://internationalrivers.org/files/BurmasGenerals.pdf
GRUNDY-WARR CARL, WONG ELAINE, Geographies of Displacement: The Karenni and The Shan Across the Myanmar-Thailand Border in SingaporeJournal of Tropical Geography, 1/2002, vedi il sito: http://www.karennisu.org/
[15] Vedi i siti: http://eng.chro.org/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1 della Chin Human Rights organization, http://www.chinlandguardian.com/, http://www.chinland.org/ sito ufficiale del Chin National Front, http://www.cacc.inf/, della Chin Association for Christian Communication, con diversi materiali di approfondimento.
[16] vedi i siti http://www.kachinpost.com/, che illustra le varie organizzazioni operanti sul territorio, http://www.kachinland.org/, http://www.kachinnet.com/, http://www.kachinstate.com/, non ufficiale.
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