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Jiří Kolář



Jiří Kolář


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Il Manifesto del 26 maggio 2010

C’è qualcosa di peggio di un’aquila che ti rosicchia il fegato? Pare di sì leggendo Il fegato di Prometeo di Jiří Kolář [Poldi libri, 2010, traduzione dal ceco di Maria Elena Cantarello].
Scritto a Praga nel 1950, pubblicato in Canada nel 1985 e finalmente nella capitale ceca nel 1990. Nato nella Boemia meridionale nel 1914, morto a Praga nel 2002, costretto a dieci anni di esilio, Jiří Kolář è universalmente noto come l’artista dei collages, della disintegrazione del reale tramite slittamento, sovrapposizione, disarticolazione. Un’arte che “allarga la coscienza umana” perché
Fra l’idea
E la realtà
Fra il gesto
E l’atto
Cade l’Ombra”.
Nel momento in cui scrive questa raccolta di poesie e prose siamo in pieno stalinismo cecoslovacco ovvero sotto un’Ombra che oscura le esistenze e non si limita a deplorare le intemperanze poetiche, ma trafigge direttamente i corpi, quello dello storico comunista Záviš Kalandra, impiccato per il suo “trozkismo”, dopo sei anni di internamento nazista, quello di Milana Horáková, giurista, resistente antinazista, anche lei appesa ad una corda politicamente corretta. Perseguitato e braccato Karel Teige, il grande teorico dell’avanguardia, invece se ne muore di crepacuore sulle scale di casa.

Da Parigi Paul Éluard plaude alle esecuzioni dei “congiurati sabotatori”. Il libro di Kolář non può naturalmente essere pubblicato e quando il manoscritto anonimo viene trovato nella casa di un amico anche lo sbirro più ottuso leggendo il verso “io mi chiamo Kolář, glielo posso dimostrare” riesce a fare due più due e il poeta finisce in carcere, con cui l’underground praghese dovrà fare i conti negli anni successivi.

Angoscia/ nera angoscia gelata/ cresce in me come un tramonto di novembre/ angoscia della parola viva/ deposta in una bara/ circondata di immagini sacre e fiori/ senza forza senza speranza” : sarà questa deposizione della parola a far deviare l’artista verso una poesia oculare rappresentata dai suoi collages. Abbraccia un silenzio fonetico per dedicarsi alla visualità, con una intuizione più che adeguata ai tempi. Nel 1950, in Il fegato di Prometeo, sono ancora le parole a tentarlo, perciò mette in scena un teatro di voci che compongono e scompongono testi e narrazioni altrui [Thomas Stearns Eliot, Ladislav Klíma, Zofia Nałkowska] cercando di alimentare una parola che costruisca la realtà piuttosto che ridursi alla sua rappresentazione. Una fabbrica effettiva in cui i pezzi vengono modificati, variati, scombinati, riprodotti incessantemente da altre mani, da altre voci in un collage, confrontage, intercalage, senza fine. Perché il muro che ha di fronte è lo stalinismo dell’anima, oltre quello materiale e tangibile dei corpi ingabbiati e fucilati, generatore di menzogna universale, di falsità irriducibili, “siamo gli uomini impagliati”.

A prima vista direi che questo libro sarebbe piaciuto a uno come Pier Paolo Pasolini, non solo per il missaggio dei linguaggi alti, bassi, laterali, ma per la coscienza che mentire non è più una scelta, ma un obbligo generalizzato, una condizione dell’esistere: "Tutti pensano al genere umano e nessuno considera l’uomo…tutti parlano d’amore e nessuno sa più che cosa significano le parole: Buon giorno o Buona notte…tutti lavorano alla più grande opera della storia e nessuno sa quello che fa…tutti avanzano verso la radiosa meta del futuro e nessuno sa che strada percorre…”.
Leggendolo siamo propensi a pensare che lo sgranocchiamento del fegato, la disintegrazione della realtà e del linguaggio che Kolář ci esibisce, siano collocati in una memoria evaporata, in un freddo passato. Invece, come in un album di disegno per bambini, ci sono parti ancora da colorare: La democrazia non ha entusiasti, fanatici, veri soldati, la democrazia ha persone, e a questo modo ciò potrebbe significare la sua rovina…Nella democrazia crescono persone amareggiate, passive, titubanti, perché credono più alla realtà che al sogno…”. Dove abbiamo messo i colori? continuiamo a chiederci.
Dammi il potere del sorriso muto dell’albero in primavera così riusciremo a rispondere in modo inatteso alla tua domanda necessaria: “Gli uomini sono ancora esseri umani?”.
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