MATITE SBRICIOLATE
dalla testimonianza di Antonio Colaleo, prigioniero di guerra in Germania, a
Balde Moussa, prigioniero di pace,
in Italia
racconto musiche danza
video
di Claudio
Canal con il CoroTeatro bequadro
e con Silvia A. Genta, danza
ingresso libero, previa prenotazione: chieri@ascs.it
oppure Antonella 393.0058393
la prigionia è una condizione drammatica, sempre. Quando diventa un’esperienza collettiva genera un’impronta storica profonda
Lo spettacolo teatrale Matite
Sbriciolate, grazie al bel libro omonimo di Antonella Bartolo, ripercorre alcuni crocevia della condizione di
prigioniero, nella duplice e ambigua veste del prigioniero
di guerra e del prigioniero di pace.
Innanzi tutto:
- i militari italiani internati dai tedeschi in Germania dopo il fatale 8 settembre 1943, di cui la testimonianza di Antonio Colaleo è prezioso avvìo e la musica di Olivier Messiaen attestato visionario
- i soldati italiani mandati sulla strada del davai ad aggredire l’Unione Sovietica,
catturati e internati
- le donne, coreane e non solo, impiegate a forza come
merce di conforto per i combattenti giapponesi
- la fallita esportazione della democrazia per mezzo
del carcere Abu Ghraib e dei lager libici per emigranti
[in Matite
Sbriciolate Mozart
dice la sua tramite una Fantasia
per pianoforte]
- la felicità delle prigioniere liberate di Boko Haram sta nella loro voce
- l’umanità dolente di un carcere italiano sottoposta a sevizie [s. Maria Capua Vetere]
- Balde Moussa,
subisce un’aggressione e viene segregato
- un coro parlante invoca libera
me, Domine
claudio canal: ricercatore on the road. Le sue più recenti Inscenate si sfogliano qui:.
Collabora a Il Manifesto, Avvenire, altre testate e piattaforme online. Ha pubblicato qualche
libro e suonato qualche musica
Luisa Passerini
is an Italian cultural historian. Formerly Professor of Cultural History at the University of Turin, she is External Professor of History at the European University Institute, Florence, and Visiting Professor in the Oral History Masters Program at Columbia University, New York Wikipedia
Attualità della tortura
Al centro dello spettacolo Matite sbriciolate c’è il
corpo. All’inizio corpi quasi invisibili, ombre che si aggirano, bianche come i
fantasmi, tra noi spettatori. Suscitano inquietudine, anche perché non ci
guardano, anzi in un certo senso ci ignorano, come testimoni dal passato:
riemergono ma non possono parlare direttamente al presente. Hanno movimenti
imprevisti, accompagnati da una musica quasi elettronica, che emana dalla
figura isolata del narratore alla tastiera sulla sinistra della piattaforma di
scena. Canto, cinema, musica - il coro
interagisce con parole e canto e movimenti e in certi passaggi si unisce in un
movimento concertato di oscillazioni, che forse esprimono l’ondeggiare tra
storia collettiva e individuale.
Anche la voce è corpo, e le voci si alternano ad audiovideo e
proiezioni di filmati sull’8 settembre 1943. Voci dei narratori e del coro
fantasmatico, voci che connettono loro e noi. Musica di Messiaen, composta ed eseguita per la prima volta nel
campo di internamento Stalag VIII-A di Görlitz sul confine polacco, il 15
gennaio 1941. Il corpo del narratore, che sta ben dritto quando si alza
dalla tastiera per mimare i gesti del dirigerla, esprime con la postura un’avvertenza:
dirà quello che ha deciso di dire senza lasciarsi piegare o tacitare. E poi i
disegni sullo schermo – fonti di memoria materiale – prodotti dalle matite
colorate che Antonio Colaleo, con un atto di preveggente resistenza, si sbriciolò nelle tasche perché non gli fossero
sottratte dalle perquisizioni. Con quelle mine Colaleo ritrasse i campi di
prigionia in trentaquattro disegni, come documenta il libro con lo
stesso titolo dello spettacolo, di Antonella Bartolo Colaleo, sulla via crucis
di suo suocero. Il capitano
Colaleo divenne prigioniero di guerra il 9 settembre 1943, fu trasferito ad
Atene nel corso dello stesso mese, poi al campo di internamento di Biala
Podlaska in Polonia, deportato in Germania, e infine internato nel campo di
Sandbostel in Sassonia – nel gennaio del 1944, a meno venti gradi di
temperatura.
Gli attori e il narratore si alternano nell’annunciare le
tappe del martirio. Il narratore, che inserisce questa singola storia in un ampio
contesto storico, diventa più corpo che voce quando mastica bucce di patate da
un contenitore di alluminio, impersonando il disgusto e la degradazione
forzatamente accettati. Dai componenti del coro, che spesso parlano
individualmente, uno dopo l’altro, apprendiamo la storia di quei prigionieri,
circa il 14%, che scelsero l’opzione di arruolarsi nell’esercito fascista o
lavorare nelle fabbriche tedesche. Altri, come Colaleo, non “optarono”:
resistettero.
Il corpo diventa sempre più dominante sulla scena. Il
narratore gira su se stesso muovendo le braccia, anticipando la performance che
è il fuoco dello spettacolo. La giovane donna il cui ruolo centrale ci è stato
segnalato fin dall’inizio con l’eccezionalità del suo abito verde, che la
distingue dagli altri attori completamente in bianco – il vestito come parte ed
espressione del corpo – sta preparando la prossima scena. Questa è inquadrata
dal narratore nella memoria delle 200.000 donne coreane, filippine, cinesi che
l’esercito giapponese reclutò come schiave sessuali per i suoi soldati a
partire dal 1932 – con l’atroce pretesa che l’operazione avrebbe prevenuto gli
stupri di guerra, i quali avrebbero potuto accrescere l’ostilità dei locali
agli invasori giapponesi.
In un passaggio a tutta prima misterioso verso
l’imprevedibile, il narratore suona la Fantasia K397 di Mozart. L’inatteso è la
svestizione e vestizione della donna in verde, il cui corpo si muove tra
sinuosità e angoscia al centro di un cerchio in cui la rinchiudono gli altri
attori, volgendole le spalle. Lei si contorce cercando di uscirne, tende mano,
braccio, gamba fuori dal cerchio implacabile e indifferente. Questa performance
sulla prigionia è il clou dello spettacolo. La prigionia è quella a cui esseri
umani costringono altri esseri umani, diventando essi stessi parte della
struttura di imprigionamento. La componente di genere accentua l’emozione. Mobilissimo
corpo di donna, corpo parlante di sapiente eppure spontanea presenza scenica,
il cui movimento denuncia e combatte la riduzione della donna a corpo. Le donne
soggiogate e umiliate, ma anche soggetti implacabili, che alla fine riemergono
dall’oppressione inflitta ai loro corpi, in nome della specificità incarnata in
questi corpi.
Lo sfondo è sempre una narrazione composta in parte di
immagini, che mescola media diversi ondeggiando verso l’avanguardia, ma
trattenuta dalle redini ben tirate della denuncia politica. Dalle/dai
prigioniere-i di guerra stiamo passando – attraverso una scena che ossessiona
le nostre memorie, della militare americana ad Abu Ghraib che tiene al
guinzaglio, quasi scherzando, un umano ridotto a bestia – fino alle prigionie
della pace, nella pace e nella democrazia. (Non compare Guantanamo, ma è
implicitamente evocato, con maggior suggestione che se fosse detto apertamente.)
Si susseguono il suono del “mambo italiano”, che accentua il grottesco, e la
danza di liberazione delle donne nigeriane. L’alternarsi dei media, la povertà
dei mezzi, insieme voluta e costretta, continuano ad accennare alla
sperimentazione dell’avanguardia, ma rafforzando per contrasto il messaggio
politico: l’attenzione si appunta sul pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere
di Santa Maria Capua Vetere. Il video – su un tempo e un luogo così vicini a
noi – è tanto impressionante da indurre alcuni di noi spettatori a distoglierne
lo sguardo.
Si affollano nelle nostre menti
pensieri e immagini, spostando sicurezze ed esplicitando disagi inespressi.
Campi di concentramento per emigranti in Libia, 2021. Le prigioniere di Boko
Haram. Gli applausi del pubblico alla polizia di Santa Maria Capua Vetere.
L’apprezzamento espresso da Meloni e Salvini per la polizia carceraria.
L’ultima storia ci porta direttamente a noi, all’oggi. È
quella di Balde Moussa, venuto dalla Guinea Conakry in Italia in cerca di pace.
Ventitré anni, preso a sprangate da giovani maschi italiani, arrestato per
essere stato aggredito senza documenti, trasferito al Centro di Permanenza per
il rimpatrio di Torino, in cella d’isolamento. In quella cella Balde Moussa si
impicca con un lenzuolo in dotazione. La storia è evocata dal narratore, mentre
la donna verde spezza matite, ne estrae le mine e comincia a disegnare, come
aveva fatto Antonio Colaleo, collegando presente e passato, prigionie di guerra
e prigionie di pace. Era stato un giudice
di pace di Torino a
convalidare la decisione della questura di Imperia di espellere il ragazzo
ferito disponendone il trattenimento in un Cpr.
Improvvisa arriva la richiesta del narratore che ci sollecita
con un largo gesto a cantare con loro, finalmente riuniti in un’unica linea che
ci confronta, il “Libera me”. Improvvisa, ma non inattesa: era stato
preannunciata da un Amen su cui aveva improvvisato il coro per introdurre la
storia di Balde Moussa – e l’Amen non era stato ripreso dopo l’introduzione del
narratore. Ma noi non osiamo, ammutoliti dall’emozione Solo dopo ripetuti inviti
si leva dal pubblico un mormorio spezzato. Emozione, non senso di colpa per ciò
di cui pure siamo responsabili e compartecipi. Le colpe dei padri sono
certamente retaggio dei figli. Ma non sul senso di colpa può basarsi il nostro
riscatto di discendenti di colonizzatori e spettatori delle prigionie del
presente. Attualità della tortura vuol dire assumersela, nell’emozione, nella
co-partecipazione, come nostra, nella e contro la prigionia che ci circonda.
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