Dove
sono finiti i Rohingya? Sono andati anche loro in vacanza? In quale oscurità sono
(ri)precipitati? Neppure un anno fa ce li servivano a pranzo e a cena. Un moto
di indignazione non glielo negavamo. Poveri, abbastanza neri, prolifici,
musulmani, ma molto distanti.
Era il loro unico pregio, oltre a quello di
consentirci di parlar male di una ex immacolata esaltazione come Aung San Suu Kyi, caduta in disgrazia
nei nostri teneri cuori che adesso le strappano di dosso le medaglie che generosamente
le avevamo conferito.
Nessun video afflitto
inquadra più questa popolazione indefinibile se non per via delle sciagure incomprensibili
che patisce e la sua maestosa impotenza.
Se Aung San non fosse stato ucciso
La Birmania dorata sarebbe diventata
Un luogo di pace
canta
una tarana –canzone poetica rohingya
raccolta dalla studiosa malese Kazi Fahmida Farzana nel suo bellissimo libro Memories of
Burmese Rohingya Refugees. Contested Identity and Belonging, Palgrave Macmillan, 2017.
Ah, se il padre
della patria non fosse stato ucciso nel 1947, come saremmo felici ora! Può
darsi. Effettivamente ci sapeva fare il giovane Bogyoke-Generale Aung San,
padre della deprecata figlia oggi al governo.
In una terra chiamata Arakan.
Abbiamo lasciato quella patria
Per paura delle torture del governo
canta in un tarana meno ingenuo.
Sogno di avere un albero, dice Poli, ragazza rohingya rifugiata. Durante l’estate nel campo si muore dal
caldo e non ci sono alberi. Vorrei anche avere una vita come gli abitanti dei
paesi vicini. Nel disegno io sto alla finestra sperando di trovare una vita
migliore.
C’è chi dice che è un incubo e chi considera la situazione comunque più sopportabile rispetto alla pesante persecuzione birmana.
In
questi mesi siamo nella lunga stagione delle piogge, in cui vivere in un
campo profughi è ancora più estenuante del solito e molto pericoloso per le epidemie, per le
rivalità fra boss interni, per la coabitazione forzata che rende, soprattutto
le donne, facili prede.
Regna il dor, la paura.
All’esodo verso
il Bangladesh non corrisponde verso Myanmar un “controesodo”, come si dice da
noi a ferie concluse.
Myanmar invita il
governo del Bangladesh a
non aiutare i 6000 rohingya incagliati nella terra di nessuno tra i
due confini. Così imparano a fare gli stravaganti, a non voler andare né di qua
né di là.
A Singapore Aung
San Suu Kyi ha tuttavia finalmente dichiarato che il suo paese è
disponibile ad accogliere i Rohingya rifugiati in Bangladesh. Senza fretta. Si
chiama rimpatrio, tutti lo richiedono, eccetto
molti Rohingya che hanno paura-dor
di subire di nuovo lo stesso accanimento birmano già patito.
Molti abitanti dei villaggi dello Stato birmano Arakan/Rakhine infatti cominciano a manifestare la loro ostilità all’eventuale rientro di Rohingya. Pongono le premesse per una crisi nella crisi tendente all’infinito.
Molti abitanti dei villaggi dello Stato birmano Arakan/Rakhine infatti cominciano a manifestare la loro ostilità all’eventuale rientro di Rohingya. Pongono le premesse per una crisi nella crisi tendente all’infinito.
Bambine rohingya indossano cappelli da elefante nella Giornata Mondiale dell’Elefante, nel campo di Cox’s Bazar, 12 agosto 2018, Campbell MacDiarmid for The National |
Ha risolto a suo modo la controversia inabissandosi nel 2010. Scomparsa.
Questo su e giù tra le onde deve
essere bello a vedersi, se sei un pescatore, un geografo, un oceanografo, se
pratichi il birdwatching.
Un po’ meno affascinante abitarci.
Un po’ meno affascinante abitarci.
Ed è ciò che invece sta
organizzando il governo
del Bangladesh che vuole spedire sull’isola
deserta almeno 100.000 Rohingya, per “alleggerire” il campo di Cox’s Bazar.
L’isola
che c’è.
L’isola che non c’è.
Disfarsi drasticamente
degli ospiti non graditi è una politica ormai globale, che non prevede
eccezioni serie.
Sulla ontologica precarietà dell’esistenza i Rohingya avrebbero qualcosa da insegnarci e potrebbero forse dirci con storta sillaba ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Sulla ontologica precarietà dell’esistenza i Rohingya avrebbero qualcosa da insegnarci e potrebbero forse dirci con storta sillaba ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
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