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AIUTATECI A CASA NOSTRA!


Dopo aver letto il rapporto della Fondazione Migrantes ITALIANI NEL MONDO  2017 ho inoltrato ferma petizione ai Potenti della Terra:

Fondo Monetario Internazionale, 
Sig. Mark Zuckerberg di FB, 
Sig. Jeff Bezos di Amazon, 
Sig. Bill Gates di Microsoft, 
Segretario Generale del Partito Comunista Cinese. 
Per precauzione anche all’Algoritmo che a Londra regola i flussi finanziari mondiali.

Nel mio esposto sono contenute due precise richieste:
1] ONG in pattugliamento negli aeroporti italiani, dotate di propria flotta aerea, astenersi Ryanair, col compito di costruire corridoi umanitari per gli italiani in cerca di futuro al di là della frontiera, in stretto accordo con le autorità doganali e guardie costiere dei diversi Stati di destinazione.

Nel mio condominio sono appena partiti un’infermiera, un pizzaiolo, un dottorato e un pensionato. Con loro altre decine di migliaia varcano i confini dell’Italia. L’OCSE dice che siamo ai primi posti nella graduatoria dei paesi di nuova emigrazione. Prima dell’Afghanistan. Subito dopo Siria e Messico.

2] aiutateci a casa nostra, l’infermiera non andrebbe in Gran Bretagna se trovasse qui un lavoro non a singhiozzo, ma continuativo e con orari un po’ umani. Il pizzaiolo non so, comunque aveva certe occhiaie che dubito scompariranno in Australia. Il dottorato ha vagato a costo Zero in diverse università della penisola, tenuto corsi, fatto esami, discusso tesi, scritto libri. Adesso parte per Copenhagen.

Gran Bretagna, Australia e Danimarca [ecc.] dovrebbero aiutarci con investimenti adeguati nella nostra sanità, ristorazione, università, servizi assistenziali. Verrebbe così frenata la crescente invasione degli italiani, i quali - portatori di cultura, religione, abitudini diverse - non andrebbero a rubare posti di lavoro ai locali e in futuro non ci saranno figli e nipoti a pretendere lo jus soli

Gradite firme di sostegno alla petizione.








Il capitale umano che ci lascia e va in Europa

LINDA LAURA SABBADINI

LA STAMPA  27 gennaio 2018


Più di mezzo milione di italiani in 5 anni sono migrati verso Paesi europei. Sono molti. E sono raddoppiati gli arrivi di italiani in Europa dal 2011 al 2015, passando da 64 mila a 136 mila. Lo dicono i dati rilevati nei Paesi di destinazione. Che cosa sta succedendo? Siamo diventati un Paese di emigrazione? O invece siamo un Paese di immigrazione-emigrazione? Analizziamo i dati. Uno sguardo al passato: in due periodi il nostro Paese ha vissuto grandi emigrazioni, tra il 1870 e il 1920 e tra il secondo dopoguerra e il 1973. Emigrazioni di massa, di milioni di persone, soprattutto dal Sud ma non solo.  

Emigrazioni diverse anche come destinazioni, la seconda più verso l’Europa della prima. Poi ad un certo punto, sempre negli Anni 70, anche grazie alle politiche restrittive di altri Paesi europei che hanno indotto i migranti a cambiare rotta, cambiamo pelle anche noi e ci trasformiamo in Paese di immigrazione. E comincia la crescita degli arrivi , prima alcune nazionalità poi altre da vari Paesi del mondo. E comincia anche il radicamento delle varie comunità. Guardiamo ad oggi. Ebbene l’immigrazione nel nostro Paese diminuisce, mentre l’emigrazione cresce e si evidenzia come un fenomeno emergente. Consideriamo questo dato del 2015, prodotto da Eurostat, ultimo disponibile. 250 mila arrivi in Italia di cui 185 mila di cittadini extra Ue+Efta.  

Se consideriamo i flussi di italiani verso i Paesi Ue27 +Efta e extraUe27 arriviamo a 172 mila, dato che potrebbe essere un po’ più alto perché sottostimato per quanto riguarda la Francia. Le due cifre sono molto vicine. Anche perché i ritorni degli italiani non sono elevati e comunque sembrano essere sostanzialmente stabili. La Germania è il principale Paese di destinazione dei nostri concittadini. In cinque anni sono stati registrati 180 mila italiani. E la cosa interessante è che gli italiani si insediano non solo dove tradizionalmente si recavano in passato i nostri connazionali, ma anche in nuove aree e in particolare in zone dell’ex Germania dell’Est. Metà dei cittadini che si spostano in Germania sono giovani da 19 a 32 anni. E tra l’altro si nota anche un aumento di immigrazione di bambini e ragazzi minori di 18 anni, indizi di emigrazioni di famiglie intere come segnala l’Istituto Statistico tedesco, con l’aumento di cittadini coniugati maggiore di quelli non coniugati.   

A questi si aggiungono anche quarantenni in crescita. Dopo la Germania si posiziona il Regno Unito con 87 mila arrivi di cittadini italiani registrati in cinque anni. E in questo caso è molto interessante verificare che cosa succede in termini di capitale umano formatosi in campo sanitario nel nostro Paese. Nel settembre 2015 risultavano circa 3000 italiani inseriti nel sistema sanitario inglese. Non si trattava solo di medici, ma anche di infermieri, ostetriche, portantini, autisti di ambulanze. Se analizziamo gli arrivi tra settembre 2015 e settembre 2016, ci accorgiamo che sono altri 2000, più del 30% giovani con meno di 25 anni e il 35% di 25-29 anni.   

D’altro canto se nella nostra sanità non si assume più, l’età media del nostro personale sanitario supera i 50 anni, non possiamo lamentarci che appena formati i nostri giovani si inseriscano nel sistema sanitario inglese. Sana reazione dovremmo dire. Questi dati ci dicono che il processo di emigrazione è sostenuto e che ha conosciuto una impennata negli ultimi anni. «Non si tratta solo di fuga di cervelli», come sottolinea il demografo Domenico Gabrielli, studioso di migrazioni «sono coinvolti i giovani formati ma non solo». E’ un fatto congiunturale o destinato ad esplodere o a perdurare? Non possiamo dirlo, ma abbiamo delle avvisaglie da tenere seriamente in considerazione, se non vogliamo tornare ad essere come in passato un Paese di elevata e patologica emigrazione. Siamo nell’era della globalizzazione.   

Non possiamo più considerare la mobilità come 50 anni fa quando era una impresa spostarsi da Roma a Milano, è connaturata a questa epoca. Ma se la mobilità diventa espressione del declino di un Paese o delle gravi difficoltà che incontra, bisogna correre ai ripari in tempo. E dotarci di strategie adeguate prima che sia troppo tardi.  



























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