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PALESTINA, CINQUANT'ANNI DOPO


CINQUANT'ANNI DOPO


Ho avuto occasione di presentare questo libro, poi di pubblicarne una breve recensione su un sito di informazione sulla Palestina.
Il mio deviazionismo di destra, di sinistra, di sopra e di sotto ha disturbato i redattori del sito e non se n'è fatto niente. 
La pubblico qui.

Chiara Cruciati, Michele Giorgio, Cinquant’anni dopo. 1967-2017 I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione dei due Stati, Alegre, Roma, 2017, pagg. 223, € 15,00

La Palestina è scomparsa solo dalle cronache, ma il popolo palestinese esiste ancora. È la frase che chiude questo libro. Appena scritta era già invecchiata. Perché i palestinesi e le palestinesi hanno questo di bello che in certi momenti sembrano sonnecchiare e, quando meno te l’aspetti, si svegliano e si agitano. Si può dire che siano dotati di talento storico per questa tecnica. Forse vorrebbero mettere in mostra anche altre doti, di cui non sono privi, ma quella cosa che chiamiamo Storia contemporanea li ha stretti in una performance unica.

Cinquant’anni dopo è la cronaca ragionata di un accurato progetto coloniale e dei mille modi per invalidarlo ed estinguerlo. Di qua i palestinesi, di là gli israeliani e, perché non sembri troppo un campo di calcio, non tutti, non sempre e spesso in ordine sparso. Per questo l’abusata parola popolo andrebbe delicatamente depositata in un cassonetto.
Imad Ahmad Barghouthi, fisico alla Al-Quds University, 
Gerusalemme, Theoretical space plasma physics.
Arrestato  da Israele nel 2016
1967-2017, I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione dei due Stati  è il sottotitolo esplicativo che contiene anche una dichiarazione politica, su cui vorrei più avanti tornare. Chiara Cruciati e Michele Giorgio documentano molto bene i due versanti della macchina coloniale, le asimmetrie ma anche le simmetrie che sempre si stabilisco tra colonizzatore e colonizzato. Che si tratti di un vero e proprio programma di occupazione coloniale è dimostrato dalla meticolosa ricostruzione dei cinquant’anni dal giugno 1967- guerra dei sei giorni  e conquista dei “Territori”- , con un resoconto minuzioso del conflitto, con le interviste, le documentazioni storiche e le analisi politiche. Il tutto con una scrittura fluente che invoglia la lettura anche in chi è periferico all’argomento. Caso abbastanza raro nella saggistica “politica” italiana.

Gli autori per fortuna si sottraggono alla elencazione dello stillicidio di malefatte israeliane, come spesso succede alla militanza filopalestinese che inconsapevolmente rafforza così l’immagine di un Israele ineluttabile, onnipotente, originale. Ricostruiscono invece i nodi del conflitto, che ha molte facce, che si è profondamente modificato nel tempo, che reagisce alle trasformazioni mediorientali e globali, che non lascia in pace i due campi al loro interno creando divisioni di difficilissima ricucitura, che circumnaviga giorno dopo giorno le soggettività palestinesi e quelle israeliane le atrofizza nella smemoratezza e nell’insolenza, che si erotizza con mitologie religiose efferate, che vede leadership di bassissimo livello rispetto alla portata storica e politica della situazione e  registra una scena internazionale ora ossessionata dal conflitto ora del tutto irreperibile. Nelle unghie di questo racconto di mezzo secolo viene chiaramente fuori che non di “questione palestinese” si tratta, bensì di “questione israeliana”.  Fanno bene Cruciati e Giorgio a focalizzarsi sui Cinquant’anni senza risalire ai primordi. Il libro si sarebbe forse appesantito.




Lo faccio io, speditamente. Nell’archeologia politica israeliana l’idea  di colonia non è  stata partorita nel 1967, ma si colloca alla base del sionismo politico, come sa chiunque abbia letto il relativo manifesto [1896] contenuto ne Lo Stato Ebraico di Theodor Herzl e chiunque conosca  un poco la storia successiva in cui la proposta del transfer, del trasferimento della popolazione araba, volente e/o nolente, da Eretz Israel nelle regioni arabe circostanti, è stata non solo dibattuta, ma auspicata e programmata. 

Per questo l’occupazione e insediamenti, insediamenti, insediamenti non costituiscono una degenerazione, ma l’attuazione esatta del sionismo politico con colonialismo incorporato. Se valutato con la logica del mercato, come fanno sia i fautori  sia gli avversari, il successo di questo sionismo non lascia spazio alla molteplicità ad altre ipotesi non trigonometriche su Israele. 
Ha’am Ahad, Martin Buber, Judah Leon Magnes, Yeshayau Leibowitz, Avraham Burg … hanno pensato sionismi e post-sionismi diversi. Non hanno trionfato, non per questo sono irrisori e trascurabili. Se Israele non volesse, ma adesso fervidamente vuole, condannarsi al destino di democratura smisuratamente tecnologica e bellica, avrebbe in queste diverse culture politiche e spirituali il materiale adeguato per cambiare rotta. Non ci sono le condizioni per una riparazione/redenzione, per tikkun
Una c’è, da cinquant’anni: Israele e Palestina sono uno Stato unico, un territorio unico, un’unica vera autorità detiene il monopolio della forza e un’unica amministrazione decide di vita e di morte, una popolazione semita articolata in più etnie e confessioni religiose stentatamente convive. Israelstina o Palesraele?   Uno Stato che è però gerarchico e costruito sulla discriminazione di fatto e di diritto. Non sarà facile farlo diventare qualcosa di profondamente diverso. 
È sicuro invece che il fallimento della soluzione dei due Stati è irrimediabile, se mai ha avuto un senso.
Ayman Mghames, Rapper Gaza


Un libro quando è di sostanza e non solo arredamento mentale del lettore, che statisticamente è soprattutto una lettrice, spinge a esplorare anche altri panorami. Altri libri. Per esempio, dico io, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati, di Ahron Bregman, da poco tradotto da Einaudi e  The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine, di Nathan Thrall pubblicato qualche mese fa da Metropolitan Books - Henry Holt and Co. I titoli parlano chiaro.  

Mi sentirei invece di suggerire all’editore di progettare la prossima volta una copertina meno orientalista in cui campeggi, che so? qualche palestinese informatico, rapper, danzatrice, cineasta, camionista, drammaturgo, coltivatore di fragole (a Gaza), scienziata, insegnante di design, calciatore, barista, scrittrice, commesso/a, infermiere/a ecc. ecc. 
Giuro che esistono e le loro vite non sono esclusivamente interpretabili come vittime di.



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