Rocco, “l’imprescindibile”, è il narratore della storia. Ha undici anni ed è in coma da diversi mesi. Così nella miniserie della TV Braccialetti Rossi, che ha spopolato tra milioni di adolescenti.
Alla loro età io ero catturato da Pippo, Pertica e Palla, e da Cocco Bill di Jacovitti.
Miley Cyrus canta praticando il twerking in scena, simulando (simulando?) masturbazione, fellatio, ecc. e su YouTube uno dei suoi video è stato visto fino a quest’istante da 610.401.548 persone, me compreso. Ancora oggi io sono incantato dalla scena della gonna bianca di Marylin Monroe sollevata dall’aria della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza.
Queste notizie di “vita vissuta” che interessano solo me stanno però ad indicare che il divario generazionale è tutt’altro che una fandonia e che la costruzione mondializzata di un senso immaginifico comune fa passi da gigante.
E’ una premessa forse inutile, ma un po’ rende conto delle variabili epistemologiche che si incrociano anche stando fermi, non muovendo il pensiero in questa o quella direzione, ma semplicemente avendo un certo numero di anni, appartenendo ad un genere, vivendo in una qualche parte del mondo ecc. A maggior ragione se il tema da lavorare riguarda la “questione del senso”.
La mia idea è che di “senso” ce n’è troppo, che andiamo, forse ci siamo già arrivati, ad una saturazione del senso come dei sensi. Che siamo in un’epoca di troppo pieno, non di troppo vuoto. Ho scritto “dei sensi” perché la semantica porta lì, inevitabilmente, e ci trascina verso il postumano/transumano dove i sensi del corpo o scompaiono o si ibridano, si disincarnano o si riplasmano. Ma questo è un percorso che non mi interessa in questo momento, lo si può tener d’occhio di sbieco grazie alle provocazioni di Peter Sloterdijk, di Donna Haraway o di Rosi Braidotti.Dunque, non siamo privi di sensi, siamo però oberati dal senso. Ad ogni traccia dell’esistente, viene riconosciuto un senso, che sia un ovulo appena fecondato che viene automaticamente promosso di grado o un vivente che non ci assomiglia e assume la forma dello straniero, una pratica umana come il nutrimento che diventa una gastrosofia perentoria che tutto impregna o un aggeggio di comunicazione che colonizza le nostre vite, e così via.
Ogni gesto umano e non, ogni movimento del reale viene inquadrato in una tassonomia che possiamo sì decostruire per costruirne però subito dopo un’altra. La rapidità con cui l’assegnazione di senso si dispone e si produce nelle nostre teste porta ad uno stordimento quasi incantatorio che non ci permette più di riconoscere ciò che di incerto c’è nell’esperienza umana singola e collettiva. E’ una frenesia che può far male alla vita perché ci lascia nudi di fronte all’ in-sensato che si muove dentro di noi e che circola nel reale, all’inconcepibile che riconosciamo presente nel mondo e in noi stessi. Mi rendo conto che messo così superficialmente può dar adito a derive miracolistiche di varia natura, ma so di essere tra queste pagine in buone mani. Non sto scrivendo su Miracoli, rotocalco di successo che spreme settimanalmente il “soprannaturale” da ogni azione umana e naturale e inconsapevolmente traccia una antropologia aggiornata di noi italiani.
Prendo a prestito una situazione che ci è nota: noi tutti ricordiamo un/a insegnante che ci ha particolarmente colpito, che nella memoria sappiamo riconoscere sulla scena della classe come un’ora diversa dalle altre. Certo, la preparazione, la competenza, l’oratoria e quant’altro, ma soprattutto un quid indefinibile che era la testimonianza di sé che metteva in moto la relazione con una vera e propria erotica che vivificava i suoi rapporti con noi (quest’idea, purtroppo, non è mia, ma di Foucault).
Insegnare vuol dire lasciare il segno. Un tatuaggio simbolico. Questo è l’aspetto incalcolabile, forse perfino indefinibile, segreto, della relazione pedagogica e tuttavia non è spiritistico, può e deve essere scrutato, così come si indaga una sonata di Beethoven senza mai veramente esaurirla, neppure alla tastiera. Gli si può assegnare senso forse solo in netta contrapposizione alla macchina amministrativa, ingegneristica, burocratica che si sta impossessando della scuola italiana dal nido all’università, quella che vuole trasformare tutti, i professionisti dell’educazione, gli insegnanti, i clienti, gli studenti, in imprenditori del proprio capitale umano, componenti di una scattante azienda educativa farcita di debiti, crediti, saldi, domande e offerte (formative) La piovra non dà scampo, si nutre di ogni rimasuglio in cui una qualche formazione abbia modo di galleggiare.
Ho tra le mani un Modulo di formazione impresa – 24 ore - art. 4 D.Lgs. n. 167/2011 s.m.i. – Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere destinato a camerieri e pizzaioli e gestito da agenzie formative in appalto regionale. Tra le Nove competenze chiave scelgo la n. 3: Comunicare o comprendere messaggi di genere diverso (quotidiano, letterario, tecnico, scientifico) e di complessità diversa, trasmessi utilizzando linguaggi diversi (verbale, matematico, scientifico, simbolico, ecc.) mediante diversi supporti (cartacei, informatici e multimediali) o rappresentare eventi, fenomeni, principi, concetti, norme, procedure, atteggiamenti stati d’animo, emozioni, ecc. utilizzando linguaggi diversi e diverse conoscenze disciplinari, mediante diversi supporti. Il pizzaiolo non ha bisogno di me per mandare a quel paese i formatori, sa farlo in piena autonomia. Qui la neolingua blatera e codifica un senso la cui forma di manifestazione sta tutta nel “salva con nome”. Idee, progetti, sguardi, relazioni, saperi vengono insaccati in un file mentale apribile a comando. Copia incolla cancella rinomina taglia sono le operazioni intellettive previste. Non concessa alcuna deroga da questa meccanica del pensiero. Società, Mercato, Impresa, Potere Politico pretendono dalla scuola e dalla pedagogia prossimità, se non abbinamento. Forse sta qui il luogo della risignificazione con una inversione a U del senso di marcia: fine dell’identificazione crescente con le dinamiche del mercato, della concorrenza, delle tecnocrazie, per essere competitivi e adeguati.
L’orizzonte è invece l’elaborazione dello scarto di senso, lo scollegamento da questo mondo di “priorità” che preme sugli insegnanti in carne ed ossa e sulla teorizzazione pedagogica. Lavorare sul sovrappiù, sull’eccedenza che prende in considerazione le domande del mondo, ma non se ne fa un vanto né le idolatra. Una pedagogia che suona unplugged anche se non disdegna le sonorità elettroniche, ma non se le fa imporre. La scuola italiana è l’unico luogo di artigianato creativo non di nicchia rimasto in piedi, uno spazio di umanità in cui, tra difficoltà e ostacoli di ogni tipo, si compone il grande assente, il legame sociale.
Non c’è partito, impresa, sindacato, sport, web, movimento, in grado di rivaleggiare. Forse qualche residuo oratorio cattolico. Nelle scrostate aule scolastiche non va in scena il legame sociale, va in forma, perché la pedagogia è performativa. Lì abita il senso. E il legame sociale è fatto, ce l’ha insegnato Durkheim, di integrazione, “il modo in cui gli individui sono attaccati alla società” e di regolazione, “il modo in cui la società li disciplina”. Fuori della scuola c’è solo la famiglia a tessere legami con la propria prole e affini. Sulle altre sue attività, stando in Italia, è meglio tacere.
Digressione prima
Scienze del sospetto?
A prima vista si direbbe un contagio. Nelle Università italiane un virus ha intaccato le discipline e ne ha fatto polpette minando le loro difese immunitarie.
Vuoi studiare filosofia? Ti offriamo scienze filosofichePedagogia? Scienze pedagogiche. Giurisprudenza? Scienze giuridiche. Antropologia? Scienze antropologiche e via rappando: scienze motorie, letterarie, filologiche, geografiche, coreutiche, economiche, internazionali, aziendali, linguistiche, criminologiche, psicologiche, forensi, manageriali, archeologiche, organizzative, umanistiche, gastronomiche, museali, strategiche, preistoriche, sociologiche, militari, religiose, ecologiche, musicali/musicologiche, bancarie, storiche, per la pace, turistiche o del turismo¸ scienze della comunicazione, educazione, formazione, alimentazione, architettura, investigazione, nutrizione, traduzione, servizio sociale, mare, costume e moda, cultura, benessere, diritto, antichità, sicurezza, saperi filosofici, e al sommo del beat scienze teologiche e scienze artistiche.
Non avrebbe senso fare i crociani fuori tempo massimo, ma questa orgia nominalistica di scienze qualche senso lo dovrà pur avere. Nessuna disciplina si fida più di se stessa, se non ha la copertura della scienza. Una autoinvestitura in un mondo dominato dalla big science? E’ la “crisi dei saperi socratici” di cui parla Martha Nussbaum? Un paludamento per saperi che si sentono un po’ spaesati nel mondo ipertecnico e scientifico? Sfiducia negli statuti propri delle discipline? Un viagra di potenziamento per ambiti conoscitivi sotto attacco da parte dell’industria culturale che li vuole sottoposti alle logiche mercantili?
Oppure l’etichetta scientifica allude ad un aggancio meno fievole alla realtà? Come se le discipline umanistiche e dintorni dichiarassero: siamo qui, siamo anche noi capaci di confrontarci con il reale. Non siamo periferiche e residuali, possiamo far parte anche noi del festival mondiale della Scienza, della Realtà, dell’Oggettività. Se così fosse, questa svolta epocale andrebbe incontro ad una beffa gigantesca perché accaduta proprio nel momento in cui la regina delle scienze dure, la fisica, comincia a raccontarci che la Realtà, la Materia sì, forse, presumibilmente è costituita da particelle e da onde, ma più verosimilmente da qualità, anzi, da fasci di proprietà. Ontologia dei tropi, la chiamano. Campi quantistici con cui non andremo mai a sbattere e dove la Realtà coincide con la Probabilità. L’incertezza da cui si volevano prendere le distanze.
Il mio sguardo un po’ distratto vede molta della pedagogia istituzionale dedita alla sua perenne autofondazione. Come fosse insoddisfatta di se stessa, in cerca qua e là di riconoscimento e di appoggi, a vagheggiare un qualche deambulatore teorico che permetta di camminare a testa alta in luoghi di enunciazione piuttosto che di conoscenza. E ciò avviene, paradossalmente, nonostante essa sia un sapere autocefalo e strategico, non solo nel senso che è necessario, ma soprattutto perché ordinato alla trasformazione del reale, destinato a coniugare obiettivi e azioni conseguenti. L’angelo della pedagogia guarda avanti, sempre in bilico tra scelte a volte contrapposte. La sua natura conflittuale non gli deriva dalla litigiosità dei suoi fautori, ma dall’obbligo di assegnare senso a ciò che senso non ha ancora. Operazione rivolta al futuro con qualche piccolo o grande dosaggio di utopia. Perciò la pedagogia è (quasi) sempre oltranzista e non contemplativa.
La retorica baumaniana racconta di un mondo liquido che a me sembra invece liquidato, non solo in senso ecosistemico (clima, energia, territorio…), ma anche nella sua rappresentazione e narrazione. Giocando con le parole: un mondo che fa senso. La dove arrivano i liquami del neoliberismo (finanzcapitalismo, capitalismo d’azzardo, capitalismo e basta…) cresce la desertificazione delle vite. I fondamentalismi che gli si oppongono non sono da meno. Tutte le domande che pensiamo di rivolgergli sembrano ottenere la medesima stereotipata risposta “il mondo da lei selezionato non è al momento raggiungibile, la invitiamo a provare più tardi” . La storia non è dalla nostra parte. Non produce automaticamente nessuna salvezza né salvatore. Un tempo si vagheggiava di un Proletariato che, unito, ne avrebbe fatte delle belle. Oggi il mantra è il/i Mercato/i, la Crescita, e i nostri desideri, i nostri impulsi, la nostra cognizione, ne sono catturati e saturati. E’ una indecent theology [rubo questa espressione ad una autorevole teologa argentina che non è più tra di noi] che non dà scampo.
Un candidato alla presidenza nelle prossime elezioni regionali del Piemonte, dove abito, promette un tablet per ogni studente, dalle elementari alle superiori. Nessuna risata cosmica lo ha sommerso. O già ce l’abbiamo o lo vorremmo avere tutti un bel tablet. Ma vorremmo anche domandare al candidato, e a noi stessi, un tablet per quale conoscenza, quale cultura, quale scienza? Addirittura, per quale pedagogia? La pedagogia non è mai innocente, diceva tempo fa Paulo Freire.
Esiste un colesterolo buono e uno cattivo, si dà anche una pedagogia rassegnata e una pedagogia critica o isterica, cioè capace di disincagliarsi dall’ordine simbolico dominante. Facile a dirsi. L’anestesia e l’inerzia affondano in noi le loro radici. Il primo compito di una pedagogia non flebile sarebbe quello di suscitare un occupy myself capace di farci uscire da quella obsolescenza programmata che non incide solo sugli oggetti, ma soprattutto su noi come soggetti.
Prendi la moda, senza scomodare Barthes: cerca in giro ciò che piace e lo ripropone. Prendi l’editoria, fa la stessa cosa. Prendi la musica, idem, o quasi. Prendi la politica, vorrebbe fare così, ma non riesce manco in questo. Prendi la nostra psicologia sociale, ruota attorno al divertente, al funny, alla vita come play station in cui la gamification riguarda i corpi, l’apprendimento, la conoscenza, le relazioni, l’amore, l’aldilà e l’aldiqua [Il sovraccarico di anglicismi è voluto]. Se bastasse scopiazzare o scannerare il reale, il visibile, l’esistente, saremmo al grado massimo della civilizzazione, ma abbiamo capito che non è sufficiente, produce, anzi, l’annichilismo, come lo chiamava Günther Anders, sappiamo che non c’è Photoshop che possa modificare il profilo del dolore, dell’inquietudine, dell’oltraggio e della violazione.
Digressione seconda
Fine dell’infanzia come eresia?
Il bambino è un perturbante. La bambina, poi. La loro imprevedibilità e inaccessibilità è sempre stata oggetto di indagine e di addomesticamento he abbiamo chiamato civilizzazione o, più semplicemente, educazione. Lavoro necessario, ma rischioso. Se ce n’è troppo, l’infanzia scalpita, se troppo poco, l’infanzia trascende. Oggi l’infanzia è attraversata da un doppio processo, fosforescenza e oscuramento. Invade tutti gli spazi immaginativi, in TV, sui social media fa bella mostra di sé grazie alle premure di genitori che espongono i pargoli fin dal primo vagito, sbaciucchiati dai potenti, coccolati da nugoli di psicologi, compatiti nei loro dolori, lusingati e incoraggiati nello sport e nello spettacolo, tallonati dagli addetti al marketing, maledetti e desiderati allo stesso tempo. Visitati e toccati da ogni sentimento sociale.
Ma, a fronte di una inedita visibilità, si è instaurato, nell’urbanistica occidentale, il loro oscuramento: rimozione dei bambini dalla strada, dove appaiono solo se accompagnati e guardati a vista da un adulto. Scomparsi gli scavezzacollo e le smorfiose, il monello e la peste sono ridotte a caricature di se stessi nelle aule scolastiche. E’ la prima volta nella storia che l’infanzia viene ritirata dalla strada e questo ripiegamento è avvenuto in pochissimi decenni. Il bambino ricomparirà in strada solo da adolescente. Verrebbe da dire save the children. Come diceva la filosofa Mafalda Triste scoperta, ragazzi: siamo facoltativi!
Pare che il periodo di oscuramento coincida con la riduzione in schiavitù delle madri, in balìa, come sostiene Elisabeth Badinter, del Grande Oppressore, il bebé, nel vano tentativo di fondersi con l’infante e di dimostragli la totale empatia detta da qualcuno attachment parenting.
Una dittatura che non lascia via d’uscita. Forse c’entra anche Alice Miller e la sua idea che tutti i mali del mondo, semplifico arbitrariamente, abbiano la loro radice nei rapporti familiari “indelicati”. Se figlio e madre sono appendice l’uno dell’altra, se sono reciproca proprietà privata – e qui fa capolino anche l’altro genitore - è ovvio che la strada non sia un luogo adatto, che le socializzazioni non controllate siano pericolose, che i cortili – regolamento condominiale alla mano - siano luoghi di parcheggio e non di gioco. Il vero cortile si chiama adesso ask.fm.
L’infanzia come eversione ed eresia riceve un’altra sonora batosta, e forse di dimensioni ancora più colossali, dalla sua inclusione nella grande orgia del mercato. Si sa che i bambini sono coltivati dal mercato, che ricevono un bombardamento semiotico senza fine, che nei loro confronti è all’opera una seduzione neanche tanto sottile che è destinata non solo all’acquisto di merci, ma all’adozione di comportamenti, di atteggiamenti, di modi di dire e di mentalità.
Tu genitore proponi un “educativo” Tinky Winky dei Teletubbies e la creatura sorbisce come storia unica e indivisibile la pubblicità e gli amati personaggi. E il co-shopping madre-figlio come tirocinio al consumo dove lo mettiamo? E il transtoy? Che non è un nuovo marchingegno sessuale, ma un prodotto trasformato in gioco, sia la patatina a forma di animale, lo zainetto a forma di bambola, la borsina di zebra, lo spazzolino di noto cartone animato…tutto veramente Kidorable.
molto avanzato e si dirige, genialmente, verso il desiderio dei
bambini e delle bambine, alla loro santificazione come
soggetti desideranti. Siamo nell’ordine della perfetta
immanenza dove il bambino poliedrico [polimorfo diceva
Sigmund] è annullato e l’infinità di piani di senso possibili
semplicemente eliminata. Perché si realizzi compiutamente è
necessaria la disgregazione di ogni refrattarietà e renitenza, la
soppressione dell’eresia infantile e della suo
carattere eversivo.
No bambini cattivi: la privatizzazione familistica dell’infanzia e il neuromarketing per i bambini sono i percorsi privilegiati.
Una pedagogia non asservita, in grado di assumere un
connotato pastorale [sì, quello di Foucault] depurato ormai
dalla pretesa di obbedienza e di dipendenza dei soggetti,
potrebbe confrontarsi con questa macchina semiotica che
galvanizza l’infanzia, e non solo.
Decommercializzando l’infanzia, come suggerisce qualcuno,
sarebbe il primo passo.
i rituali, il protocollo
l’annebbiarsi dei termini
silenzio non assenza
di parole o musica oppure
suoni malvagi
Il silenzio può essere un piano
rigorosamente completato
la cartografia della vita
É una presenza
ha una storia una forma
Non confonderla
con qualsiasi tipo di assenza
sfumature di silenzio, ce ne sono forse due, quella di chi è assoggettato alla propria o all’altrui violenza, individuale o sistemica che sia, e quella di chi cerca di prendere la distanza, di tacere per ripensare se stesso e il mondo, per scampare alla cagnara globale. Ovvero un piano rigorosamente completato.
Un silenzio carico che germoglia domande.
La tiritera che segue propone qualche grattacapo da sbrogliare se ci interessa un orizzonte educativo contro producente.
Il trionfo della quiztura, della cultura a crocette, che dilaga in ogni tipo di scuola, diventata una specie di borsa valori. Là dove la misurazione standardizzata è nata e consolidata, gli Stati Uniti, serpeggia un movimento di genitori e insegnanti critici sui test e sulla loro somministrazione (!) e in Cina si comincia a criticare pubblicamente la pratica del gaokao, il test di ammissione all’università.
nazione o di far la fortuna di merci o personaggi mediocri, forse un
ripensamento del merito e della meritocrazia, che non sono la stessa cosa,
farebbe bene alla salute mentali di tutti. Si potrebbe cominciare rileggendo
Michael Young che per primo (1958) usò il termine meritocrazia.
- Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi e Perché la rete ci rende intelligenti sono i titoli di due importanti libri di autori diversi, ovvio.
Vogliamo approfondirlo questo confronto prima di imbottire
le scuole, e le case, di miracolosi gadget ipertecnologici?
Ne va dei nostri sistemi neuronali oppure no?
La googlizzazione del sapere è governabile oppure les jeux
sont faits! il sortilegio è avvenuto e le nostre connessioni
intracraniche vanno ad abitare nell’etere fuori di noi?
Lo si può fare con calmezza, come direbbe Checco Zalone,
o le due tifoserie si possono solo guardare in cagnesco?
- L’auto pulizia etnica maschile dalla scuola italiana sta a significare qualcosa?
La morte del maschio? Bisognerà ricorrere alle quote blu per l’accesso all’insegnamento? Gli uomini non cambiano, cantava perentoriamente Mia Martini. Sarà per questa rigidità di ruoli, la poca confidenza con la cura o per i salari non esaltanti? In scuola si regolamentano anche i corpi, in modo normativo o con la pedagogia latente, l’hidden curriculum degli spazi, dei gesti, dei movimenti, dei sorrisi, dei toni di voce. La sparizione del maschio dalla scuola ci dice qualcosa di noi stessi e di questo momento storico? Dalla parte delle bambine ha eseguito egregiamente il suo compito in questi quarant’anni. Dalla parte di chi ci dobbiamo mettere oggi? Per fare l’albero ci vuole il seme…Per fare un maschio ci vuole…Per fare una femmina, una donna, ci vuole…Per fare qualche altro genere ci vuole…
Se non siamo chiusi in gabbia, se abbiamo gli occhi per vedere le mille altre domande che si accalcano, siamo nella disposizione giusta per pensare l’invisibile che si manifesta nel visibile, siamo capaci di amare i nostri limiti e non esserne impauriti.
“ Chi ci insegnerà la disciplina della gioia, i suoi meravigliosi
catechismi?” scriveva nella sua ultima lettera Cristina Campo,
echeggiando forse qualche versetto dell’Evangelo di Giovanni
[15, 19-23] o il III e IV libro dell’Etica di Spinoza. A scelta.
Andrees Latif/Reuter |
Digressione ultima
Epicentri
Mandalay, già capitale precoloniale della Birmania/Myanmar e centro culturale del paese. Al termine di un seminario di italianistica durato un mese, gli studenti si inginocchiano e recitano, in mio onore, una lode dell’insegnante. Io sono sbigottito e imbarazzato. Le movenze sono quelle di una cerimonia buddista.
Qui, la demodernizzazione di cui parla Alain Touraine [“sparizione dei giudizi di normalità che si applicavano ai comportamenti retti da istituzioni” e “scomparsa dei ruoli, delle norme dei valori sociali attraverso i quali si costruiva il mondo vissuto”] è in fase avanzata. In Birmania è all’incipit.
In Albania il traumatico cambiamento di regime politico e di significazione ha sottoposto ai venti tempestosi della globalizzazione, ovvero al dominio del mercato, la scuola, l’educazione, gli stili del sapere. Né più né meno dell’Italia. Gli insegnanti sono rapidamente precipitati ai piani bassi della gerarchia sociale e le istituzioni educative si affannano per diventare “imprese/aziende”. Il sapere, la scuola, gli insegnanti, come qualità primarie del vivere comune, sono un vago ricordo della generazione anziana.
Racconterò un giorno o l’altro le tante eccezioni, i molti assi di contrasto a questo processo.
In Birmania la potenza socializzante delle scuole monastiche ha costruito su tutto il territorio, popolazioni depauperate comprese, una base di riconoscimento del compito educativo e della dignità del sapere, anche quando quest’ultimo assumeva forme ormai fossilizzate. I venti di cui sopra si stanno trasformando in raffiche possenti. Anche queste mi piacerebbe un giorno raccontare più diffusamente.
L’illecita comparazione che ho istituito aveva ricevuto il titolo Dai margini. L’ho corretto in tempo, per non smentire l’impegno di provincializzare me stesso e l’Europa, come ci ha suggerito vent’anni fa Dipesh Chakrabarty.
postumano
Peter Sloterijk, Devi cambiare la tua vita: sull'antropotecnica, a cura di Paolo Perticari, Milano, Raffaello Cortina, 2010.
Nussbaum
Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino, 2011
ontologia dei tropi
Meinard Kuhlmann, Quantum Field Theory, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2012,
Mainard Kuhlmann, Che cosa è reale?, Le scienze, 2013
Günther Anders, Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961,
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Trad. Maria Anna Massimello, Bollati Boringhieri, Torino, 2009 decommercializzare i bambini Juliet B. Schor, Nati per comprare, Apogeo, Milano, 2005, filone apocalittico. Commissione federale per l’infanzia e la gioventù (CFIG)
Critici o manipolati? I giovani e il consumo consapevole
Adrienne Rich, Cartografie del silenzio: poesie scelte 1951-1995, a cura di M.L.Vezzali, Crocetti, Milano, 2000
Una sintesi radicale: Carlos Miguel Tovar Samanez, La jornada de cuatro horas. Pleno empleo, economía estable y mejor calidad de vida, in Pacarina del Sur. Revista de Pensamiento Critico LatinoAmericano, 15, 2013 test, gao kao, web The Gathering Resistance to Standardized Tests in Rethinking schools, spring, 2014 Intendono migliorare i test:
Fair Test. The National Center for Fair and Open TestingUna cronaca del movimento di resistenza ai test standardizzati , sul Washington post Valeria Puntilo, La lunga marcia verso il gao kao Diane Ravitch, The Myth of Chinese Super Schools in The New York Review of Books, nov. 2014 Jan Johnson, Solving China's Schools: An Interview with Jiang Xueqin in The New York Review of Books, apr. 2014 Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, trad. A. Petrelli, Corbaccio, Milano, 2013 Howard Rheingold, Perché la rete ci rende intelligenti, a cura di S.Corassini, Cortina, Milano, 2013 |
maschi a scuola
Barbara Mapelli, Stefania Ulivieri Stiozzi (a cura di), Uomini in educazione, Stripes, Rho (MI) 2012
il tema riguarda molti paesi. Se ne è interessata anche l'Unesco:
Christine Skelton (2002) The 'feminisation of schooling' or 're-masculinising' primary education?[1],
International Studies in Sociology of Education, 12:1, 77-96,
M. Cacouault-Bitauddu, La feminisation d’une profession est-elle le signe d’une baisse de prestige ? Travail, genre et sociétés, 2001/1 (N° 5)
Regina Cortina, Sonsoles San Roman [eds], Women and Teaching. Global Perspectives on the Feminization of a Profession, Palgrave MacMillan, New York, 2006
birmania
Khammai Dhammasami, Between Idealism and Pragmatism. A Study of Monastic Education in Burma and Thailand from the Seventeenth Century to the Present, 2004,
questo medesimo blog
Libertà, uguaglianza, diversità, traduzione di Roberto Salvadori, Il saggiatore, Milano, 1998] Ho conosciuto il pensiero di Chakrabarty vent'anni fa, dal seguente articolo: |
Representations, No. 37, Winter, 1992
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