Il Manifesto pubblica mercoledì 23 gennaio 2013 questo mio articolo:
di Jean-Marc Ela è disponibile presso l'editore, Il grido dell'uomo africano. Domande ai cristiani e alle Chiese dell'Africa, L'Harmattan Italia, Torino, 2001. Altre importanti opere sue si possono trovare nelle biblioteche. Il medesimo editore ha anche pubblicato una lunga intervista: Jean-Marc Ela, sociologo e teologo africano con il boubou, a cura di Yao Assogba, 2001;
Engelbert Mveng oltre ad essere un importante teologo è stato anche un apprezzato artista. Qui la Via crucis Africana in una chiesa di Nairobi http://www.flickr.com/photos/millhillmissionaries/sets/72157629871676561/
Di Achille Mbembe è stato tradotto Postcoloniality con il titolo, sbagliato, a mio avviso, di Postcolonialismo, edizioni Meltemi, 2003, che nel frattempo ha chiuso i battenti. Un suo articolo in Aut Aut, 339/2008, Che cos'è il pensiero postcoloniale? In rete è disponibile l'interessantissima rivista diretta da Mbembe: The Johannesburg salon http://jwtc.org.za/salon_volume_5.htm
L'Egitto africano e nero come coscienza storica
L’editoria italiana sa
essere bizzarra. Pubblica un secondo libro su
Cheikh Anta Diop, i cui scritti non sono mai stati tradotti anche se ne ha pubblicati almeno una dozzina tra il
1954 e il 1986, anno in cui è morto. Ma chi è Cheikh Anta Diop? Ce lo racconta Jean-Marc Ela in L’Africa a
testa alta di Cheikh Anta Diop [EMI, Bologna, 2012, traduzione di Pier Maria Mazzola, prefazione
di Marco Aime, pagg. 154, € 12,00; l’originale è del 1989. L’altro testo su C. Anta Diop è di Pathé
Diagne, Cheikh Anta Diop e l’Africa nella
storia del mondo, L’Harmattan, Torino, 2002].
Subito viene un’altra inevitabile domanda, Chi è Jean-Marc Ela? Camerunese, sociologo, filosofo, teologo,
prete cattolico, di cui, invece, l’editoria italiana per fortuna si è accorta.
Ma lascio la parola ad Achille Mbembe,
l’autore di Postcoloniality, che con
lui collaborò per diverso tempo, e che gli dedicò un lungo e profondo
necrologio per la sua morte avvenuta nel 2008 in Canada, dove si era rifugiato
dopo l’assassinio in patria del confratello, padre Engelbert Mveng: “Non
ascolteremo più la sua voce, di limpida e cristallina purezza, così folgorante
nel suo rifiuto di ogni compromesso, così scintillante di chiarezza e
portatrice di speranza in mezzo alla notte della nostra epoca, all’aridità dei
nostri giorni e alla crudeltà che non cessa di avvolgerci strettamente, come
una sorte malvagia…La sua pratica dell’ascesi ha fatto di lui il pensatore
africano più radicale dopo Franz Fanon. Ma fu anche profeta di speranza. Il
fondamento della sua opera intellettuale e della sua prassi sociale fu la
speranza di liberazione di energie nascoste o dimenticate, la speranza di un
reale ritorno delle potenze addormentate, il sogno di resurrezione”.
Jean-Marc Ela |
Torniamo a Cheikh Anta Diop. Nato nel 1923 in
Senegal è stato uno storico, un linguista, un egittologo e uno specializzato in
fisica nucleare. Un militante dell’indipendenza del suo paese e dell’Africa,
che ha sempre abilmente intrecciato il piano scientifico con quello politico. E’ stato ed è una figura
fecondamente controversa. E’ sufficiente scandire i titoli di alcuni dei suoi
libri per rendersi conto dei temi spinosi
messi a fermentare: Nazioni negre e
cultura. Dall’antichità negra egiziana ai problemi dell’Africa nera di oggi
[1955], L’Africa Nera precoloniale. Studio comparato
dei sistemi politici e sociali dell’Europa e dell’Africa, dall’Antichità alla
formazione degli Stati moderni [1960], I
fondamenti economici e culturali di uno
Stato federale dell’Africa Nera [1960], Anteriorità
delle civiltà negre: Mito o verità storica? [1967], Parentela genetica dell’egiziano faraonico e delle lingue
negro-africane [1977], Civiltà o
Barbarie. Antropologia senza compiacenze [1981]. Non è difficile così riconoscere
l’apparecchio intellettuale che Diop
viene costruendo e perché sia stato emarginato dalla vita universitaria del suo
paese, dopo gli studi in Francia. Diop
intende ricomporre uno sguardo africano sull’Africa. Come scrive
Jean-Marc Ela: “In un contesto
intellettuale in cui l’Africa figura solo a titolo di oggetto nello sforzo di
produzione scientifica che si opera senza di essa, il Nero è condannato a scoprirsi
nello sguardo dell’Altro”.
Diop ha come obiettivo la riconquista
della memoria culturale e storica delle popolazioni africane e lo fa proponendo
una ricostruzione dell’unità linguistica africana a partire dall’antica civiltà
egizia come matrice. Un Egitto africano e nero, conteso e sottratto al
sequestro che ne ha fatto la cultura europea di tutti i tempi. In questa
operazione, contrastata e ridicolizzata a più non posso dall’accademia, anteriore e differente dalla Black Athena di Martin Bernal, Anta Diop si qualifica come l’anti-Hegel
africano che contesta le radici dell’autocoscienza europea: l’Africa non è il
passato degli europei, non è la notte della ragione e gli africani i figli di
questa notte, umanità bambina da domesticare. Le società africane vengono
sottoposte da Diop ad una analisi
dinamica, non giocata sul trito binomio dell’antropologia coloniale
“tradizione/modernità”. Le mutazioni storiche africane non sono regolate da
questo dualismo, per esempio “la maggior
parte dei clan e delle tribù hanno conosciuto evoluzioni molto complesse. E’ il
caso delle società africane che hanno vissuto sotto la monarchia e che si sono
ritribalizzate in gradi differenti durante il periodo della tratta negriera”. Il suo lavoro di scavo storico fa franare il
mito di un’Africa rimasta selvaggia prima della penetrazione europea e questo “ripristino della coscienza storica” non
è fine a se stesso, ma si salda con l’obiettivo politico della “rivoluzione africana”.
La storia come luogo
privilegiato della scoperta dell’identità africana pone Diop sulla linea
epistemologica che sarà sviluppata negli anni Ottanta dai Subaltern Studies in India e da certi dibattiti postcoloniali nelle
Americhe indigene. Tutti sottoposti all’accusa, teoricamente giustificata, di essenzialismo, di costruzione di
fondamenti ontologici dell’identità, di utilizzo della storia per accedere ad
una mitica identità originaria, una storia cioè che si mette fuori della
storia. Jean-Marc Ela prova a
smentire questo versante del pensiero di Anta
Diop con esiti che non sempre convincono. Il posizionamento di Diop è politico, la maggior parte della sua attività si è
manifestata durante il periodo più acuto della colonizzazione e delle lotte per
l’indipendenza. La sua è una sociologia politica che interroga le forme
evolutive delle società africane, le loro particolari strutture sociali e politiche, e questa
indagine sul loro regime di storicità non è fine a se stessa, vuole costituire
invece la premessa ad un programma che aveva come obiettivo uno Stato federale
africano. In questo modo Diop fa uso,
senza saperlo, di quella tipologia che Gayatri Spivak ha definito come essenzialismo strategico, cioè la fissazione provvisoria di una identità che si sa essere artificiale,
socialmente costruita, e tuttavia utile
all’emergere di una azione collettiva. A contraddire l’immaginario coloniale
non poteva essere la negritudine
enunciata dal suo compatriota Léopold
Sédar Senghor, questa sì identità regressiva, bensì una nuova coscienza
storica degli africani. La questione non sta nel “glorificarsi di un passato più o meno grandioso”: si tratta di “scoprire e di prendere coscienza della
continuità di questo passato, qualunque esso sia stato”. Non tutte le identità, le essenze,
sono uguali ai fini della liberazione.
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