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 MUSULMANI DI BIRMANIA
articolo pubblicato su Il Manifesto  del 5 ottobre 2012
            Abbiamo passato la vita a piangere” è il primo verso di un tarana dei Rohingya nei campi profughi  in Bangladesh. Un poema cantato di struggente nostalgia. Una memoria che guada il fiume Nat al confine e al di là si appiglia a quello che adesso si chiama Stato Rakhine, già Arakan, in Myanmar, già Birmania [anzi, Burma, in inglese] una delle 14 articolazioni amministrative della Birmania/Myanmar. Venuto alla ribalta lo scorso giugno per una serie di scontri sanguinosi tra componenti diverse della popolazione senza che la polizia si sia data particolarmente da fare per arginare le battaglie. Risultato: un centinaio di morti, forse di più. Case bruciate, molta gente sistemata in campi di rifugiati, molti Rohingya che cercano scampo via mare verso il Bangladesh, che li respinge.
Ma chi sono i Rohingya e soprattutto cosa vogliono? Han provato a chiederlo ad Aung San Suu Kyi, la Signora birmana premio Nobel per la pace, nel suo recente viaggio negli Stati Uniti, ma la Lady ha tergiversato. L’ho chiesto via Skype ad alcuni miei studenti di Mandalay, ex capitale precoloniale, ma hanno tergiversato anche loro o mi hanno ripetuto la versione ufficiale: i Rohingya sono immigrati illegali dal Bengala, tritato anch’esso dalla storia e diventato Bangladesh, la parte orientale, e Stato dell’India quella occidentale. Immigrati illegali erano anche gli slogan che ripetevano nelle dimostrazioni di inizio settembre i 5000 monaci buddisti scesi in piazza proprio a Mandalay, in appoggio al capo del governo birmano, l’ex generale Thein Sein. Erano gli stessi che erano scesi in piazza nel settembre 2007 contro la giunta militare nella gloriosa rivoluzione di zafferano? Difficile a dirsi, perché i monaci birmani si sono sempre divisi tra filo e anti governativi. Erano comunque in tanti a gridare che era giusto cacciare  i Rohingya. Il vocabolario a disposizione è quello noto: cittadinanza, respingimenti, integrazione, rimpatrio forzato, nazionalità, difesa della cultura, centri di detenzione, campi profughi.

La manifestazione dei monaci a Mandalay il 2 settembre 2012
I Rohingya sono birmani musulmani. Questo semplice enunciato di geografia umana è inaccettabile per la maggioranza dei birmani che mi rinfaccerebbero che non  sono birmani. Lo dicono in un paese dove quasi la metà della popolazione non  è birmana, bensì di altri gruppi etnolinguistici con fortissime connotazioni culturali e politiche, oltre che religiose, tanto che molte regioni si chiamano Stato Shan, Stato Chin, Stato Karen ecc. dal nome della popolazione in loco maggioritaria. Gli inglesi, che per più di un secolo ne sono stati i duri colonizzatori, usano il termine burman [bamar, in birmano] per indicare il gruppo etnico maggioritario e burmese per indicare la nazionalità di tutti i cittadini di Myanmar. Come sappiamo, i nomi già contengono strategie di legittimazione o di denigrazione.      Eppure, se si fa una passeggiata nel centro storico di Yangon, ex Rangoon, ex capitale, oggi sostituita da Naypyidaw, nel giro di pochi isolati trovi una pagoda buddista, una chiesa battista, un tempio indù, una sinagoga ebraica, diverse moschee, la cattedrale anglicana e quella cattolica, senza dimenticare l’Esercito della salvezza e il tempio sikh. Perché dunque Aung San Suu Kyi  elude la domanda? Perché qualsiasi risposta fornisca si mette nei pasticci. Se dice che sì, i Rohingya sono immigrati bengalesi che non hanno diritto alla cittadinanza e devono tornarsene da dove sono venuti, magari 80 o 400 anni fa, noi occidentali, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, la guardiamo di traverso e gli strappiamo di mano il Nobel  per la pace.  Se dice che no, i Rohingya sono perseguitati e hanno diritto alla cittadinanza anche perché vivono nella terra in cui hanno sempre vissuto, apolidi a casa loro, si inimica fortemente il governo con cui ha avviato una collaborazione, i monaci buddisti, i media e la stragrande maggioranza della popolazione birmana, “burmese”. Sfugge la domanda, perché, come ha detto al Queen’s College di New York, “I dissidenti non possono essere dissidenti per sempre; noi siamo dissidenti perché non vogliamo più essere dissidenti”. Come darle torto?
Magra consolazione per gli uni e gli altri: la millenaria storia dello Stato Rakhine [già Arakan] è una delle aree con più ricca storiografia, brandita come clava a seconda della propria collocazione.
Ritorno di Aung San dagli USA - foto JPaing
Il governo soffia sul fuoco delle rivalità fra Rohingya musulmani e maggioranza buddista nello Stato Rakhine, perché il resto del paese, nella sua componente maggioritaria birmana-burmese, è ben disposto a dargli credito e sostegno, come dappertutto, quando vengono sollecitati gli istinti nazionalistici in una realtà economicamente e socialmente deprivata. “Birmanizzare” la Birmania, rivendicarne l’esclusività simbolica, è però una operazione molto rischiosa. In un momento di relativa calma  potrebbero tornare a cantare le canne dei fucili e i cauti e guardinghi gesti di una fragile democratizzazione potrebbero velocemente svanire nel nulla e il paese tornare ad essere sul ciglio di una Jugoslavia asiatica.
Per un inquadramento sulla questione delle nazionalità in Birmania, vedi il post del settembre 2009, intitolato SOGNI E INCUBI. Nazione, Nazionalità e guerra in Birmania; http://claudiocanal.blogspot.it/2009/09/birmaniamyanmar.html

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