“Abbiamo passato la vita a piangere” è il
primo verso di un tarana dei Rohingya nei campi profughi in Bangladesh. Un poema cantato di struggente
nostalgia. Una memoria che guada il fiume Nat
al confine e al di là si appiglia a quello che adesso si chiama Stato Rakhine, già Arakan, in Myanmar, già Birmania [anzi, Burma, in inglese] una delle 14 articolazioni amministrative della
Birmania/Myanmar. Venuto alla ribalta lo scorso giugno per una serie di scontri
sanguinosi tra componenti diverse della popolazione senza che la polizia si sia
data particolarmente da fare per arginare le battaglie. Risultato: un centinaio
di morti, forse di più. Case bruciate, molta gente sistemata in campi di
rifugiati, molti Rohingya che cercano
scampo via mare verso il Bangladesh, che li respinge.
[v. il post del 13 giugno 2012 http://claudiocanal.blogspot.it/2012/06/myanmar-newsletter-102012-la-sequenza.html]
Ma chi sono i Rohingya e soprattutto cosa vogliono?
Han provato a chiederlo ad Aung San Suu
Kyi, la Signora birmana premio Nobel per la pace, nel suo recente viaggio
negli Stati Uniti, ma la Lady ha
tergiversato. L’ho chiesto via Skype ad alcuni miei studenti di Mandalay, ex
capitale precoloniale, ma hanno tergiversato anche loro o mi hanno ripetuto la
versione ufficiale: i Rohingya sono
immigrati illegali dal Bengala, tritato
anch’esso dalla storia e diventato Bangladesh,
la parte orientale, e Stato dell’India quella occidentale. Immigrati illegali erano anche gli slogan che ripetevano nelle
dimostrazioni di inizio settembre i 5000 monaci buddisti scesi in piazza
proprio a Mandalay, in appoggio al capo del governo birmano, l’ex generale Thein Sein. Erano gli stessi che erano
scesi in piazza nel settembre 2007 contro la giunta militare nella gloriosa rivoluzione di zafferano? Difficile a
dirsi, perché i monaci birmani si sono sempre divisi tra filo e anti
governativi. Erano comunque in tanti a gridare che era giusto cacciare i Rohingya.
Il vocabolario a disposizione è quello noto: cittadinanza, respingimenti,
integrazione, rimpatrio forzato, nazionalità, difesa della cultura, centri di
detenzione, campi profughi.
I Rohingya
sono birmani musulmani. Questo semplice enunciato di geografia umana è
inaccettabile per la maggioranza dei birmani che mi rinfaccerebbero che non sono birmani. Lo dicono in un paese dove quasi
la metà della popolazione non è birmana, bensì di altri gruppi
etnolinguistici con fortissime connotazioni culturali e politiche, oltre che
religiose, tanto che molte regioni si chiamano Stato Shan, Stato Chin, Stato Karen ecc. dal nome della
popolazione in loco maggioritaria. Gli inglesi, che per più di un secolo ne
sono stati i duri colonizzatori, usano il termine burman [bamar, in
birmano] per indicare il gruppo etnico maggioritario e burmese per indicare la nazionalità di tutti i cittadini di Myanmar. Come sappiamo, i nomi già
contengono strategie di legittimazione o di denigrazione. Eppure, se si fa una
passeggiata nel centro storico di Yangon,
ex Rangoon, ex capitale, oggi
sostituita da Naypyidaw, nel giro di
pochi isolati trovi una pagoda buddista, una chiesa battista, un tempio indù,
una sinagoga ebraica, diverse moschee, la cattedrale anglicana e quella
cattolica, senza dimenticare l’Esercito della salvezza e il tempio sikh. Perché
dunque Aung San Suu Kyi elude la domanda? Perché qualsiasi risposta fornisca
si mette nei pasticci. Se dice che sì, i Rohingya
sono immigrati bengalesi che non hanno diritto alla cittadinanza e devono
tornarsene da dove sono venuti, magari 80 o 400 anni fa, noi occidentali,
qualsiasi cosa voglia dire questa parola, la guardiamo di traverso e gli
strappiamo di mano il Nobel per la pace.
Se dice che no, i Rohingya sono perseguitati e hanno
diritto alla cittadinanza anche perché vivono nella terra in cui hanno sempre
vissuto, apolidi a casa loro, si inimica fortemente il governo con cui ha avviato
una collaborazione, i monaci buddisti, i media e la stragrande maggioranza
della popolazione birmana, “burmese”. Sfugge la domanda, perché, come ha detto
al Queen’s College di New York, “I dissidenti non possono essere dissidenti
per sempre; noi siamo dissidenti perché non vogliamo più essere dissidenti”.
Come darle torto?
Magra consolazione per gli uni e gli altri: la
millenaria storia dello Stato Rakhine
[già Arakan] è una delle aree con più
ricca storiografia, brandita come clava a seconda della propria collocazione.
Ritorno di Aung San dagli USA - foto JPaing |
Per un inquadramento sulla questione delle nazionalità in Birmania, vedi il post del settembre 2009, intitolato SOGNI E INCUBI. Nazione, Nazionalità e guerra in Birmania; http://claudiocanal.blogspot.it/2009/09/birmaniamyanmar.html
Vedi anche il report di Human Rights Watch: Perilous Plight:http://www.genocidewatch.org/images/Myanmar_09_05_26_Perilous_Plight_Burma_s_Rohingya_Take_to_the_Seas.pdf
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