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LA DONNA DI SHANGHAI
Aveva cominciato nel 1997 e ha continuato per i cinque anni successivi. Interviste ai “destristi” sopravvissuti ad un campo di “rieducazione”  di quarant’anni prima. Questo è stato l’impegno dello scrittore cinese Xianhui Yang.

E “La donna di Shanghai” è il risultato. Tredici storie che si snodano come racconti  di vite perdute  tra patimenti e degradazioni, tra dedizione e amore.  Chi legge non può fare a meno di riconosce i limiti della  immaginazione umana, che sono limiti fisici, perché non possiamo avere che una debolissima percezione di cosa voglia dire vivere, per esempio, in una grotta per anni con temperature notturne a meno venti, poco vestiti, poco coperti e denutriti. Ci resta solo da rabbrividire mentalmente e mettere in moto l’ esecrazione e il raccapriccio.  Il resto lo fa la letteratura, che ci permette con i suoi ponti di parole di arrivare fino al deserto del Gobi, dove stava il campo di “rieducazione” di  Jiabiangou. Messo in piedi per riformattare  uomini che avevano preso sul serio la parola d’ordine  del presidente Mao:  che cento fiori sboccino e cento scuole di pensiero dibattano. I cento fiori erano sbocciati  e il pensiero non era rimasto inerte, discutendo, criticando le burocrazie di partito e le gerarchie di potere. Avevamo scherzato, compagni! E nello stesso anno, 1957, era partita la controffensiva contro chi si era sentito finalmente libero di dire la sua. Era la campagna contro i destristi, i reazionari, ovvero coloro che si erano permessi di avanzare critiche  al partito e ai suoi programmi. 
Dei tremila spediti a Jiabiangou  nel 1957, alla chiusura del campo,nel 1961,  sopravvivevano in cinquecento. Noi diciamo campo, e in Europa sappiamo bene  cosa significhi. Ma qui non è il filo spinato a determinare la  reclusione.  Coloro che venivano spediti a Jiabiangou, arrivati ai bordi del deserto, dovevano trovarsi un terreno, un rifugio, il cibo e nello stesso tempo eseguire il lavoro per cui erano stati comandati. Di solito scavare canali di irrigazione e pozzi. La prima fantasia hollywoodiana che a noi viene in mente è: perché non scappavano? Perché davanti c’era il deserto. Perché erano deperiti. Ma soprattutto perché: “Anche nei momenti peggiori, riponevamo grandi speranze nei nostri dirigenti. Avevamo l’illusione che, un giorno o l’altro, il Partito avrebbe capito l’infondatezza della nostra condanna, e i verdetti sarebbero stati annullati. Consideravamo la riforma attraverso il lavoro una prova della nostra lealtà verso il Partito comunista. Fuggire sarebbe stato un tradimento della fiducia del Partito, un tradimento di cui ci saremmo pentiti per il resto della nostra vita”. Questi uomini che erano lì per purgarsi, e mai parola fu più corporalmente adeguata,  erano stati succubi dell’anonima forza del Potere che in loro si trasformava in un giudice interiore che non aveva bisogno di ricorrere a guardiani efferati, che pure non mancavano.
Yang  Xianhui ci porta in mezzo a loro con una scrittura piana, non drammatica né retorica, quasi dimessa.
Yang Xianhui, La donna di Shanghai – Voci di sopravvivenza da un gulag cinese, trad. dal cinese e introduzione di Wen Huang, trad. per l’edizione italiana di Anna Carbone, Amatea, Bologna, 2011, pag. 314, € 16,00

a firma di Ivan Franceschini si può trovare una documentata ricostruzione degli avvenimenti che portarono a Jiabiangou nel blog

http://www.cineresie.info/i-dannati-di-jiabiangou/
che è una delle fonti più attentibili e più interessanti sulla Cina contemporanea.

Alla Mostra del Cinema di Venezia del 2010 è stato presentato il film Le Fosse [The Ditch] del regista Wang Bing, una coproduzione franco-belga. Un lavoro che si presenta come un documentario essendo invece una fiction.
Qui il trailer:

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