Dietro quel gesto dei monaci che rovesciano le scodelle
Richiesto dai miei studenti di italiano di Mandalay, ripubblico un articolo comparso su Il Manifesto del 5 settembre 2007, al tempo delle agitazioni per la democrazia in Birmania
L'improvvisa irruzione sulla scena internazionale della Birmania/Myanmar ha portato al centro della nostra fantasia figure di monaci il comportamento dei quali esula dai nostri cliché, che non prevedono religiosi e per giunta monache sfilare per le strade sfidando le forze dell'ordine. Ma i «monaci» birmani, pongyi, così lontani dai nostri frati, non fanno voti di castità, povertà e obbedienza, meditano sul carattere effimero di tutte le cose, hanno facoltà di ritrarsi dalla loro decisione vocazionale, non vivono chiusi nei monasteri, ma escono ogni giorno per la questua, parlano e discutono abitualmente con la gente. Inoltre, è consuetudine che quasi tutti i maschi birmani, a partire dai sette anni, anche solo per poche settimane si facciano monaci: considerato un onore, è una forma di iniziazione che prevede complessi cerimoniali di ammissione del novizio, lo shinbyu. Quanto alla completa ordinazione, upasampada, essa è raggiungibile solo a partire dai vent'anni, età nella quale ci si può unire alla Sangha, la comunità dei monaci.
Una nuova capitale nella foresta
Il numero dei monaci in Birmania sfiora più o meno il mezzo milione e settantacinquemila sono le monache su quarantasette milioni di abitanti (sempre che queste statistiche siano attendibili) in un paese il cui profilo buddista non è dovuto soltanto alle pagode stagliate all'orizzonte, ma all'intero corso della sua storia. Tuttavia, è possibile incontrare a poca distanza da una pagoda importante come la Sule, teatro dei recenti scontri, due moschee, una chiesa battista, una sinagoga, un tempio sikh e uno indù, la chiesa dell'Esercito della salvezza, la cattedrale cattolica e quella anglicana, il tutto nel perimetro di Yangon - già Rangoon - la ex capitale che si avvia a venire sostituita da quella che, non a caso, è stata chiamata la «città reale», Naypyidaw, frutto della paranoia della giunta militare, che la sta costruendo nel mezzo della foresta.
È indubbio, tuttavia, che la maggioranza della popolazione si riferisce al buddismo, nella versione Theravada, la «scuola degli antichi», mescolata a molti elementi prebuddisti (tra i quali il diffusissimo culto dei nat, ossia degli spiriti) e praticata anche dai militari che, finito il periodo del«socialismo birmano», ne hanno fatto la loro bandiera.
Generali
in preghiera
La giunta militare si presenta come l'erede spirituale della monarchia birmana precoloniale in cui il sovrano e la comunità dei monaci agivano in un rapporto di profonda interdipendenza. Se uno slogan andasse scelto a sintetizzare la costruzione di una comunità birmana «ordinata», questo suonerebbe così: «Preservare le tradizioni buddiste».
Tanto nella Shwedagon Pagoda di Yangon, quanto nella Mahamuni di Mandalay, capitale storica del paese, le foto dei generali sono esposte accanto alle statue di Buddha, reverenti e benedicenti. La televisione trasmette di continuo scene edificanti di ufficiali che pregano, che partecipano attivamente alle cerimonie, che inaugurano nuove pagode e ne restaurano di antiche. Allo stesso tempo, la giunta ha avviato una serie di operazioni di controllo sulla Sangha, la comunità dei monaci appunto, non solo pretendendo che la loro condotta si uniformi a quello che qui chiameremmo «centralismo democratico», ma sottomettendoli alla loro autorità tramite una serie di provvedimenti vessatori: i monaci sono stati, infatti, obbligati a possedere un libretto di identità personale, i loro superiori sparsi nei vari monasteri si sono visti sottoporre alla tutela del Ministero degli affari religiosi, è stato loro impedito l'accesso ai fondi depositati presso la Banca Nazionale ed è stata vietata la loro partecipazione a cerimonie non preventivamente autorizzate. Di fronte a questa situazione, peraltro, il Consiglio dei grandi maestri ha abdicato al suo ruolo mediatore, abbandonando dunque di fatto ogni responsabilità nelle mani dei militari.
U Ottama 1879-1939 |
Htein Linn |
Comprendere questa logica serve anche a capire la natura della opposizione esercitata da Aung San Suu Kyi, che rivendica la sua collocazione nella tradizione buddista dell'ottocentesco re Mindon, seguita poi da suo padre - uno dei principali esponenti politici birmani, ucciso nel 1947, dopo avere negoziato l'indipendenza della nazione dall'Inghilterra - e perfino del dittatore Ne Win, il generale che governò come un dittatore la Birmania per ventisei anni, e fondò il Partito del Programma Socialista della Birmania, l'unico partito in carica dal marzo del 1964, quando tutti gli altri furono aboliti dal decreto militare del Consiglio rivoluzionario. Il compito che la giunta si è assegnato nei confronti di Aung San Suu Kyi è quello di farla passare per una tirapiedi dell'Occidente neocolonialista e della sua propaganda sui diritti umani; come ha evidenziato, tra gli altri, Stephen Mc Carthy in un suo libro titolato The Politics of Piety: Pageantry and the Struggle for Buddhism in Burma (University of Hong Kong, 2007).
Fuori
dalla nicchia della icona
Ma la trasformazione stessa di Aung San Suu Kyi in icona della resistenza ne ha limitato molto l'efficacia politica, come si sente dire da quando, lo scorso inverno, sono cominciate le prime timide manifestazioni pubbliche promosse dalla Generazione studenti dell'88, ed è diventata più manifesta la necessità che Aung San Suu Kyi superi il suo ruolo di simbolo.
Di certo, quella birmana è una situazione singolare, nella quale si sommano la centralizzazione del potere politico e economico nelle mani della giunta, la sua vocazione alla rapina, e una diffusa paura che si ripeta - in quelle geografie asiatiche - una situazione analoga a quella jugoslava. Infatti, i conflitti nelle regioni «non birmane», abitate da altri gruppi linguistici, non sono mai veramente cessati, anche se è formalmente avvenuto un processo di riconciliazione. E i terribili campi profughi alla frontiera con la Thailanda, stipati da un milione di persone alla disperata ricerca di una alternativa di vita, ne sono la tragica testimonianza.
Forte dello slogan nazionalista «la Birmania ai birmani», la giunta ha integrato
nell'esercito gli accaniti guerriglieri dell'Esercito buddista democratico
Karen, facendone le proprie milizie terroristiche; al loro fianco, le milizie
paramilitari dell'Unione Solidarietà e Sviluppo, che a loro volta si incaricano
di tenere corsi di buddismo per laici, e le cui gesta abbiamo visto filmate in
questi giorni, nei terribili video delle manifestazioni.
Quel che dicono nelle campagne
Quel che dicono nelle campagne
Ma è pur vero che il sessantotto per cento della popolazione abita nella Birmania rurale, e lì sembra che il timore dei disordini e del caos prevalga sulla paura generata dal carattere autoritario dello Stato. Nel volume di Ardeth Maung Thawnghmung Behind the teak Curtain: Authoritarianism, Agricultural Policies and Political Legitimacy in Rural Burma/Myanmar (Kegan Paul, 2004), si trova questa sintomatica dichiarazione di un agricoltore della provincia di Yangon: «Io dovrò continuare a coltivare la terra, che ci sia un governo democratico o militare o comunista. Non mi curo sul serio di quale governo c'è , finché il paese rimane tranquillo e i prezzi al consumo bassi e stabili». Proprio l'assenza di queste due condizioni indispensabili, la «tranquillità» e la «stabilità economica», potrebbero dunque segnare l'inizio della fine per la giunta militare-buddista.
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