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FRANCESCA SPANO

Presentazione di un libro, si è detto, non commemorazione, la sera del 20 agosto 2010 nella sala del Liceo Valdese di Torre Pellice. L'occasione era la pubblicazione di un volume contenente una scelta degli scritti di Francesca Spano, morta tre anni fa. Molto pubblico, relazioni appassionate e intelligenti, anche se "dalla platea" tutti e tutte avrebbero avuto molte cose da dire di lei e di se stessi.
Io non ho, di fatto, aperto bocca, avendo gia' avuto il privilegio di scrivere la prefazione al libro, che qui riproduco. Forse avrei dovuto  suonare un interminabile blues per stare in quella memoria fatta non di accumulazione, ma di attesa e di speranza,  che era una delle tracce vitali di Francesca.


Sembra brutto a dirsi, ma la consolazione viene proprio dalla gentilezza, prima ancora che dal contenuto di quello che dici; il solo fatto che sei tranquillo e non mi urli mi fa bene” “Ma io non sono per niente tranquillo e, dentro di me, urlo”: potevano anche cominciare così certi incontri o telefonate con Francesca Spano, dove il fraintendimento non era un muro, ma un mare aperto da navigare a vele spiegate. Senza una rotta apparente che non fosse la sua bussola interiore che tarava tutte le mattine al risveglio. Nella notte i sogni imperversavano e si perdeva, attraversata da mille altre vite e montagne ed eserciti. La vita diurna cominciava così, dissolvendo sogni.

In questo libro ci sono molte, importanti, decisive parole di Francesca Spano e chiunque sappia leggere riconoscerà la bussola che la guidava. Una bussola parlante che la chiamava, la accompagnava e qualche volta inaspettatamente taceva. Sarà una bella gara per chi leggerà i suoi scritti dare un nome alla bussola dai punti cardinali non sempre saldi al loro posto. E i nomi possono essere tanti, ciascuno potrà ritrovare il suo o smarrirlo. Non è che questi scritti possano riassumere FrancescaSpano - mi piace continuare a chiamarla così, saldando nome e cognome. Nessuna vita, ma proprio nessuna, può essere riassunta né dall’opera omnia né dalle parole di qualcun altro. Per questo la morte continua ad essere uno scandalo maledetto, perché non solo ruba una vita , ma cancella l’universo che quella vita respira e costruisce. F.S. lo sapeva bene. Una volta ci siamo trovati a ricordare Luigi Pintor, io con la musica, lei con i pensieri, citando di Pintor una pagina in cui si diceva che nessuna vita può essere riassunta da… e così via all’infinito, quasi a voler giustificare la superficie di silenzio che ci lasciamo dietro e che deve aver ormai riempito tutti i paradisi e gli inferni disponibili. Ce l’aveva così chiara questa perdita non rimborsabile che incontrando i vivi se ne faceva inzuppare, come a trattenere in sé il succo delle moltissime esistenze che incontrava o che la cercavano. Spesso sfibrandola. Non aveva respingenti e la sua dedizione e passione per l’umanità vivente deve aver inciso non poco sulla sua resistenza alla morte. Non sto proponendo la sua canonizzazione né sottintendere una qualche vocazione al martirio. Al solo pensiero mi fulminerebbero le sue invettive contro un tale cattolicesimo naturalistico capace di far di ogni erba un fascio. Voglio solo dire che questo suo essere indifesa per amore – non mi viene un’altra parola - era anche la sua straordinaria forza e il suo indicibile fascino. Riusciva a farti vedere te stesso meglio che te stesso. Non per sorprendenti capacità analitiche, che pure non le mancavano, ma per un ascolto attivo che metteva in gioco discernimento, condivisione ed esatta percezione del nostro tempo, abituata com’era a toccarlo con la punta delle dita. Chiunque l’abbia conosciuta potrebbe fare mille esempi. Io ne faccio uno non particolarmente interiore – me la tengo per me, l’interiorità. Avevo scritto una cosa su una donna di Praga storicamente non marginale, “Quello che più mi commuove leggendo le tue pagine è l’amore che esse esprimono per il nostro secolo, il tanto vituperato Novecento, che tu conosci e al quale ti accompagni nel profondo e che io ho intuito per assaggi: sento l’amore per le persone, per i luoghi, le dinamiche, le letture, i suoni, gli stili di vita, le battaglie gli errori e le tragedie”. Sono trasecolato, caduto dalle nuvole, ma sono caduto dentro me stesso. Era uno sguardo su di me che non mi ero mai proposto, così mi sono in qualche modo riformattato, collocando diversamente le mie ossessioni, le mie curiosità, le mie intenzioni. Ritrovando parti di me interrate chissà dove.

Tutti siamo gravidi di noi stessi, pieni delle nostre ansie, aspirazioni, idee, emozioni. E tutti, soprattutto in questi tempi, amiamo esternarle, farne, se non proprio uno spettacolo, come pure avviene, almeno un luogo di manifestazione, qualche volta di esibizione. Anche quando si tratti di dolore. Misconoscendo il diritto dell’altro/a a fare lo stesso, a sgravidarsi e a partorire se stesso con la medesima fiducia e affidamento. Per questo la condotta di CescaSpano non è solo oggetto di rimpianto, ma di progetto: costruire quella “ermeneutica” condivisa che così accuratamente sapeva applicare nelle relazioni. Ognuno di noi si sentiva l’ amico/a prediletto/a, anche coloro che hanno contribuito a renderle la vita più malagevole.

So che una introduzione dovrebbe muoversi ad altre altezze, più dedicata a delineare testi e contesti delle pagine che seguono, ma questo se lo farà da sé il lettore e la lettrice, approfittando delle ottime panoramiche biografiche e informative che precedono i testi. Io mi sento più a mio agio a mostrare la spinta postuma che ricevo (riceviamo) da FrancescaSpano. Se avessi una sola possibilità di risposta alla domanda: cosa resta di lei? Direi: Se fosse stata una filosofa, e lo era, credo che avrebbe scritto libri luminosi sull’arte di tener per mano, di sillabare con te le parole dell’anima, di svincolarsi dalle tane dell’io per incontrare l’umanità tangibile. Se fosse stata teologa, e lo era, avrebbe, come Simone Weil, tracciato una teologia del “quaerens me sedisti lassus - cercando me ti sei seduto affaticato” del Dies Irae, non solo da parte di quel Dio-bussola che l’ha accompagnata, ma da parte di lei medesima cercatrice di esseri umani e seduta lassa sulla sedia per la fatica mai scansata.

Questo è il suo lascito, che è anche un impegno e una promessa che sfiora l’eversione in tempi di narcisi asserviti e indolenti come siamo diventati.

Io ho pisciato nel letto oltre il periodo infantile di norma, perciò ho nitido il ricordo di mia madre che cambia il lenzuolo, lo rimbocca, lo accarezza per farmi posto e consentirmi di dormire ancora un po’ per essere poi solerte a scuola l’indomani. Quando l’avevo assimilata a questo gesto materno Francesca non se ne era stupita, vi aveva visto le varie fasi delle sue ermeneutiche di relazione. Poteva “cambiare il lenzuolo” agli altri perché sapeva riconoscere chi lo aveva cambiato a lei: “per ogni cosa che di me penso buona so chi ringraziare, e posso anche rintracciare gli anni, le fasi della mia vita in cui i miei maestri mi hanno fatto arrivare i loro regali” e sapeva anche non accontentarsi di sé, siamo stati tutti dei piscialetto: "Trent’anni dopo ho trovato molte difficoltà a spiegare con precisione alle mie amiche femministe che, istintivamente e da sempre, diffido delle emozioni che “sento” dentro di me; che non mi considero autorizzata a sentire quel che sento e che dunque l’esaltazione delle emozioni mi lasciava perplessa e che non ero tanto in grado di “partire da me”.

Si riconoscerebbe nelle parole che sto per dire e che per me suonano come uno spartiacque dell’umanità? Non mi sento di affermarlo con certezza, non lo so proprio. Oggi siamo sotto il dominio della cura di sé, estetica, spirituale, morale, ecc. e sempre meno sul piano del superamento di sé. Io credo che FrancescaSpano vivesse consapevolmente nella piena instabilità di questo equilibrio etico, filosofico, politico, che nel dolore e nella letizia sapeva tenere uniti e in tensione. Si possono assegnare scuole filosofiche e teorie politiche a ciascuno dei due versanti, ma tenerli assieme senza degradarli è l’opera dell’oggi. So che si può fare, che può diventare un programma di vita, non perché l’ho letto in un libro, ma perché l’ho visto in atto in Francesca. Poteva viverla questa tensione perché dentro di sé sferruzzava. Chiunque l’abbia conosciuta l’ha vista all’opera, candida e maliziosa allo stesso tempo. Trama, ordito, diritto, rovescio. E chi le stava attorno la guardava intenerito o infastidito e contrariato. Cesca si è interrogata sul valore metaforico di questo onnipresente lavorare a maglia. Non metaforico, metafisico. Periferica del suo hardware interiore, vera essenza del suo essere, il caos del gomitolo trasformato in cosmo grazie al punto rasato, al punto inglese, al lavorio dei ferri guidati da mani intelligenti condotte da un cuore pensante, come diceva Etty Hillesum. Una di quelle abitudini che mantengono il mondo. Proprio il gomitolo-mondo era l’habitat del suo sguardo. Aveva un’aquila negli occhi e interrogava il mondo e il nostro tempo con domande perentorie che faceva risalire a qualcuno che l’aveva chiamata:"La fede biblica non offre risposte ma situa nell’orizzonte di Dio le domande e dunque aiuta ad individuare le domande giuste". Gli amici anticristi tentennavano, stremati dal mistero e senza i ferri del mestiere tra le mani: "il Cristo che si manifesta nella vicenda umana di Gesù di Nazareth rappresentava il paradigma della possibilità (altrimenti troppo inquietante) di porsi il problema di Dio e non il paradigma della realtà di Dio in sé".

Anche le amiche barcollavano, ma qui non mi avventuro, sapendo che di domande e di risposte da esaudire ce ne sono ancora troppe. Era inutile erigere maschili barricate interiori al suo pensiero di donna e continua ad esserlo anche dopo di lei. Non lo puoi più disimparare una volta appreso perché anche per lei era stato un percorso accidentato e non l’avvinghiamento ad un’idea: "Mi concentravo su altri slogan, con ostilità prima di tutto teologica: perché l’«io sono mia» (che sostanzialmente rivendicava la fine della dipendenza femminile da padri, mariti e leader) suonava alla mia coscienza protestante quasi blasfemo («Certo che non voglio dipendere da un marito o da un leader», mi dicevo, «ma non sono mia, perché appartengo a Chi mi ha chiamata per nome e mi ha salvata»). Ci vollero anni perché facessi in parte mia la convinzione di Luce Irigaray per cui quella delle donne è la grande, vera rivoluzione del Novecento".

Ancora una volta nel nostro disporci nel post-francescaspano abbiamo una mansione da svolgere, riconoscere l’insufficienza e l’inutilità della bipartizione credente/non credente. Una contrapposizione facile e povera che serve solo alle istituzioni e agli arroganti, mentre nella forma terrena del mondo tutti hanno un dubbio che gli trema nel cuore e nella mente. Per questo le pagine che seguono appartengono alla sapienza del cucchiaio che si dà ai bambini, agli ammalati e ai vecchi. Bambini lo continuiamo ad essere, bisognosi di sorriso e di conferme, ammalati lo siamo fin troppo, di noi stessi o del mondo, ammalati e ammaliati, vecchi lo diventiamo fin dalla nascita e quando ce ne accorgiamo è troppo tardi.
Francesca amava le cose che diceva, che è diverso dal dire le cose che ami. Se n’è andata in un’estate impaziente. Le sue parole sapranno nutrire la nostra di impazienza.




Francesca Spano
Con rigore e passione,
Claudiana, Torino,
2010
pagg. 276, € 20,00
 1. Mondo protestante e società italiana
2. Fede e politica
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4. Ricerca teologica e psicanalisi
5. Ebraismo. Radici e diramazioni
6. Parole per...

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