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Milena Jesenská








Antenata di chi? Si sarebbe chiesta sbalordita Milena Jesenská alla proposta di comparire in una micropinacoteca di avi a nostro uso e consumo. Avrebbe forse captato a malapena il nostro bisogno a tutti i costi di genealogie alle volte strampalate. Si sarebbe distratta in fretta di fronte alla nostra malinconica fobia per la memoria in tutte le sue varianti. “Noi conosciamo perfettamente il passato e ce ne curiamo inutilmente giacché non possiamo cambiarlo; conosciamo perfettamente anche l’avvenire e ce ne curiamo non meno inutilmente giacché non siamo in grado di indovinarlo né di plasmarlo a nostro piacere. L’unica cosa di cui non sappiamo niente è il presente, questo pomeriggio, l’ora stessa che stiamo vivendo. Custodiamo il passato come un tesoro e speculiamo sull’avvenire, ma sprechiamo irrimediabilmente il presente. Siamo a malapena coscienti del fatto che la vita è proprio il presente, “unicamente” il presente. Così, prepariamo del tè e ci diciamo che ciò non è che un intermezzo tra quello che è stato e quello che sarà. Ma in realtà non è così, in realtà questa è la vita. La vita non è altro che questo. Senza glorie, banale, piena di delusioni, per meglio dire: un’unica grande delusione, un eterno stare seduti in sala d’attesa, un eterno aspettare un treno diretto che non viene.Ma questa radura sabbiosa piena di erica e di esili pinastri dalle chiome filtra la luce del sole, è stupenda, e tu, stupido cuore, non pensare adesso all’uomo che ti ama troppo o troppo poco, non pensare al mantello nuovo con la fodera vecchia o alla lettera che devi spedire all’ufficio delle imposte, non pensare ad altro che a ciò che vedi. Pensa esclusivamente a questo, coglilo nella sua pienezza, dimentica tutto il resto, senza essere triste o allegro, felice o pieno di desideri, perché tutto ciò è assurdo; sii presente e cerca, Dio mio, cerca di vedere soltanto quest’ora e di gustare tutto ciò che essa ti offre” [Národní Listy, 22 agosto 1926]

Filosofi accademici e pensatori di strada avrebbero ruminato a lungo sulla frammentazione del tempo lineare che qui Milena Jesenská ci propone con piglio extracategoriale. Una linea di pensiero che si attaglia con precisione a questa donna, profondamente presa dall’imminenza della vita da non lasciarsene sfuggire alcun frammento anche quando il dolore avrebbe suggerito altre traiettorie.
Impiantare un culto degli antenati suppone una certa disposizione alla celebrazione e Milena Jesenská sembra sottrarsene. Morta nel maggio 1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück, Milena sarebbe del tutto svanita nella polvere dei sommersi dal filo spinato copiosamente teso dal Novecento, secolo interminabile. Se non fosse avvenuta nel 1952 la pubblicazione in Germania di un libro Briefe an Milena che la riguardava. Queste Lettere a Milena avevano un mittente che da trent’anni era uscito dalla vita per entrare nella memoria europea come visionario scandagliatore dei tempi a venire. Franz Kafka di Praga.



Cara signora Milena,
dal sito: www.gerard-bertrand.net
la pioggia che durava da due giorni e una notte è appena cessata, forse soltanto provvisoriamente, ma certo è un avvenimento degno di essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei” incipit la prima lettera dell’aprile 1920. “E ora, nonostante tutto, i ‘migliori saluti’; che importa se cadono a terra già al cancello del giardino, la Sua forza è forse tanto maggiore. Suo K” chiude l’ultima del 25 dicembre 1923. Quel fascio di lettere avrebbe prodotto una delle più indelebili icone della Grande Letteratura Europea, Milena di Kafka, oggetto sentimental erotico dello scrittore. Figura dell’anima di Kafka e di noi lettori e lettrici in vario tentivo di identificazione e distanziamento. Studiosi molto sicuri di sé ne avrebbero trattato come un’articolazione del romanzo europeo, alla pari di Anna Karenina, Madame Bovary o Manon Lescaut. Per dislocarla dalla mistica letteraria e riportarla “in vita” ci sarebbero volute due donne intrinseche alla sua esistenza: Jana Černá alias Jana Krejcarova alias Honza, figlia di Milena, e Margarethe Buber Neumann, che la incontrò e la vide morire a Ravensbrűck. I loro libri avrebbero certificato l’esistenza di Milena Jesenská oltre il mito letterario.



Praga è la zona europea dove si fomentano spazi di speranza nei primi decenni dell’inesauribile secolo breve. Milena avrebbe avuto la sua formazione nel primo liceo femminile [e la sua de-formazione nel lager femminile] per poi entrare in piena baldanza nell’humus cittadino dove l’Europa immaginaria dava prova di sé. Metti in fila i nomi e hai quell’Europa che sente il vento che spira dal futuro: Karel Čapek, Max Brod, Franz Kafka, Karel Teige, Franz Werfel, Jaroslav Seifert, Julius Fučík…Scrittori di pura chiaroveggenza, di nuda pietà, anticipatori d’estetica, poeti del caos, narratori del sublime, rivoluzionari ostaggi del destino. Le loro opere d’amore, che fossero parole, musica, disegni, azioni, Milena le sa osservare, riconoscere, trasformare in gesti di quotidiana maturità. Che scriva per i giornali a cui collabora, che aggreghi le persone inaggregabili, che abiti l’anima di alcune, che traduca Rosa Luxemburg, che derida gli occupanti tedeschi, Milena Jesenská lo fa sempre con passo lieve “La leggerezza è un dono di Dio. Nella leggerezza c’è più verità, più morale, più spirito. Le persone più leggere sono al tempo stesso le più pesanti e, giacché stanno alla sommità, sono sole” [Tribuna, 28 luglio 1928] anche se “Il lavoro del reporter assomiglia spesso a quello di una jena. Egli se ne va in giro col suo taccuino e si appunta le disgrazie altrui per riferirne sui giornali. Se lo facesse senza nutrire almeno un poco di speranza nell’utilità delle sue parole stampate, non meriterebbe neppure una stretta di mano” [Přitomnost, 27 ottobre 1937].

La pesantezza dei tempi non l’avrebbe fatta ricredere. La sua appassionata partecipazione al comunismo creativo degli anni Venti si trasforma in critica radicale del mito sovietico appena ha sentore della fine che vi fanno gli esuli austriaci, i combattenti in Spagna, i comunisti tedeschi:
Molti di loro sono stati arrestati, altri inviati, detenuti, in Siberia o nelle grandi zone industriali. A questo punto viene da chiedersi: chi ha veramente realizzato le grandi opere in Unione Sovietica, le dighe, le chiuse, i canali?" [Přitomnost, 8 marzo 1939]. Il confronto con il nazismo è diretto. L’Europa è divorata da un cancro e le metastasi stanno per invadere Praga: "Dabbasso, nel seminterrato, vivono anche due emigrati, due socialisti tedeschi. Hanno soltanto un permesso di soggiorno provvisorio, nessun altro documento, sono senza lavoro, e tutti gli abitanti del palazzo -cechi, tedeschi ed ebrei- sono alquanto infastiditi della loro presenza. Perché un emigrato - è un negro e, per giunta, un negro in mezzo a bianchi, fuori posto qui, damned nigger! In questi quattro anni l'Europa è cambiata al punto che oggi è piena di negri…” [Přitomnost, 30 marzo 1938]. Di questa malattia grave l’Europa deve ancora guarire, come sappiamo e come Milena intuiva.
Il suo confronto con il nazismo sarà radicale, di opposizione attiva. Tale da guadagnarle il triangolo rosso di prigioniera politica, numero 4714, blocco 1.
Vi è mai capitato di giacere in una stanza buia, di guardare, nell’oscurità, il soffitto, impietriti dal terrore e dalla sofferenza e, d’improvviso, da qualche parte sopra di voi, un bambino comincia a piangere “per voi”? Avete mai avuto la sensazione che a teatro degli uomini muoiano, lottino o cantino “per voi”? Non vi è mai capitato di vedere un uccello che vola “per voi”, le ali spiegate, tranquillo, felice, e che poi dispare in lontananza per non tornare più? Non vi siete mai imbattuti in una strada il cui selciato può sopportare soltanto il numero di passi che vi occorrono per liberarvi dal vostro dolore?
Io sono fermamente convinta che il mondo ci venga in aiuto. Non so come, né attraverso che cosa. Interviene improvvisamente, insperatamente, semplicemente, pietosamente. A volte, pero’, la salvezza è dolorosa quasi quanto il dolore stesso” [Tribuna, 25 febbraio 1921].

Si sarebbe riconosciuto Lévinas in questa traccia dell’Altro evocata da Milena? Non lo sappiamo. Così come non sappiamo perché Miriam, la sorella di Mosé, venga qualificata del titolo di “profeta”. Nel momento in cui il fratello è tratto dal Nilo dalla figlia del Faraone, Miriam “osserva da lontano”. Certa esegesi rabbinica suggerisce che questa semplice posizione di attesa e di vigilanza la consacra e la innalza al rango di profeta. Pur dentro agli eventi Milena ha sempre “osservato da lontano”: “ Qui viviamo in una trappola per topi. In un modo o nell’altro, alla fine moriremo tutti qui. Non vedo nessun’altra uscita. Semplicemente non possiamo finir bene…A lungo termine non sono pessimista. Ma nulla di ciò che può succedere a breve distanza è buono per noi” [lettera a Willi Schlamm, 12 agosto 1938]. Il suo inconscio “osserva da lontano”, disposto a vedere in forma di sogno scaglie di futuro più di vent’anni prima di finire in una baracca di Ravensbrűck:
"Non so dove fossi , in un luogo infinitamente lontano da casa - in America? In Cina? Da qualche parte, all'altro capo della terra, mentre l'intero pianeta era sconvolto da una guerra o da una peste, o dal diluvio universale. Della catastrofe in atto io non sapevo niente di preciso. Ma una folle fretta, una folle agitazione mi trascinavano con gli altri nella fuga. Non sapevo dove stavamo fuggendo. Non chiesi neppure perché fuggivamo. Da una stazione partivano, uno dopo l'altro, treni interminabili alla volta del mondo, tutti strapieni. Gli impiegati delle ferrovie erano in preda al panico, nessuno voleva rimanere lì per ultimo. Gli uomini lottavano per un posto come per la loro vita. Fra me e i binari si frapponeva una folla immensa, non avevo alcuna speranza di farmi largo attraverso di essa. Ero disperata.
"Sono giovane, non posso morire!" gridai.
Ma davanti a me c'erano altre persone giovani. E i biglietti erano quasi esauriti. Il treno che stava partendo era l'ultimo. Alla luce del giorno, i semafori verdi e rossi lampeggiavano minacciosamente. Non avevo salvezza.
Fu allora che qualcuno mi toccò la spalla. Mi voltai e uno sconosciuto mi dette in mano un biglietto, dicendomi: "Con questo lei può andare in tutto il mondo. Può passare il confine e avere un posto sul treno. Non abbia paura e sia coraggiosa. Ma ora vada, si affretti, è tempo"…
…Nel momento stesso in cui il treno partì, avvenne la catastrofe. La terra sprofondò in un baratro, il mondo si trasformò in un'immensa rete ferroviaria lungo la quale viaggiavano uomini, uomini che non avevano più patria. I binari posavano sopra l'abisso e le locomotive sfrecciavano a velocità forsennata. Finalmente il treno si fermò al confine.
"Controllo! Tutti a terra!" gridò il conduttore.
La gente affluì al casotto dei doganieri, soltanto io rimasi indietro, senza passaporto, senza bagaglio. Nella mano stringevo convulsamente il biglietto. Brividi di freddo mi correvano lungo la schiena. Un doganiere mi si avvicinò e mi chiese i documenti. I secondi si trasformarono in un'eternità. Aprii il biglietto. Il doganiere, impaziente, si appoggiò ora su una gamba, ora sull'altra, tendendomi la mano. Sembrava deciso a non farmi passare. Io guardai il biglietto. Vi lessi, scritto in venti lingue diverse:
"Condannata a morte"
Un sudore freddo m'imperlò la fronte. Il mio cuore smise di battere. Un nodo di paura spasmodica, dolorosa mi strinse il petto. Un'angoscia mortale mi prese alla gola. Allora, aggrappandomi a una tenue speranza, già sul punto di morire, già all'ultimo respiro, dissi al doganiere con tono supplice:
"Che sia soltanto una parola d'ordine perché io possa arrivare più facilmente all'altro capo del mondo?"

da Nuvole, sezione Antenati, settembre 2005

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