Millosh Gjergj Nikolla
in arte Migjeni
“La sorella Olga e la Colonia Albanese di Torino, profondamente commosse per l’indimenticabile dimostrazione di stima data all’estinto Millosh Nikolla sentitamente ringraziano la direzione dell’Ospedale valdese, il pastore sig. Giulio Tron, la direzione e le signorine di “Villa Elisa” e tutti coloro che parteciparono ai funerali del caro Defunto”: questi due necrologi comparsi il 2 settembre del 1938 sul settimanale La voce del Pellice, ci raccontano una duplice storia: la prima riguarda il Caro Defunto, Millosh Gjergj Nikolla ovvero Migjeni [acronimo del nome originale], il più rilevante poeta albanese del Novecento, la seconda narra di noi e delle nostre faziosità involontarie.
Migjeni aveva concluso a Torre Pellice la sua breve vita, 27 anni ancora da compiere. La tubercolosi non faceva sconti allora e Migjeni era già stato ricoverato al San Luigi di Torino per diversi mesi. Perché proprio a Torino? Perché lì la sorella Olga si stava laureando in matematica e perché l’Italia costituiva un approdo abbastanza naturale per gli albanesi, dal momento che tra i due Paesi correva, dall’inizio del secolo, un ricco intreccio culturale, politico, economico, religioso, che avrà il suo tragico e farsesco epilogo nella occupazione e annessione fascista dell’Albania dell’aprile del 1939. Da quel momento l’Albania diventerà una provincia dell’Italia.
1938, anno terribile per i poeti: muore Cesar Vallejo, la sua dirompente lingua trasforma la letteratura latinoamericana, muore Osip Mandel’stam, che non regge il feroce gulag cui è condannato, muore Gabriele D’Annunzio, incerto sulla sua futura gloria, muoiono Alfonsina Storni che a Mar del Plata sceglie l’oceano come strada ultima da percorrere e Antonia Pozzi, che non ha bisogno delle profondità del mare, muore Muhammad Iqbal, che sa lamentarsi dell’assenza di Dio come nessun altro.
Anche Torre Pellice registra coscienziosamente la morte di Migjeni, come dimostrano gli atti di morte ecclesiastici e comunali. Il cimitero ne ospita la tomba, da cui le spoglie saranno traslate in patria nel 1956. Per il resto chi sia questo “ giovane albanese” di cui dicono gli atti non costituirà motivo di curiosità e il dimenticatoio sarà la sua dimora.
Nato a Scutari nel 1911 da una famiglia ortodossa, Migjeni studia a Bar in Montenegro e poi a Monastir in Macedonia [slavo antico, russo, greco, latino e francese]. Quindi insegna in diverse scuole, prima sulla costa e poi sulle montagne albanesi, dove prende amaramente atto del le condizioni di miseria in cui vivono le popolazioni. La sua meditazione si fa quasi invettiva :
Giorno dopo giorno declinano gli deie sfumano le loro immagini
negli anni e nei secoli
e nessuno ora sa più chi sia dio, chi sia uomo.
Nel cervello dell’uomo dio si è rannicchiato
e con la mano si batte le tempia
per il rimorso
e, pieno d’ira, gridando si chiede:
“Che cosa mai ho creato?”
E l’umanità non sa più
se dio sia una sua creatura
o se sia lei creatura di dio,
ma s’accorge che è folle
meditare su un idolo
che non risponde.
Fermenta Nietzsche sotto questi versi e non i motivi romantici o naturalistici, non il folclore o la mitologia popolare, cari alla letteratura albanese che gli è contemporanea. Il suo è un confronto con la modernità: “canto d’Occidente, canto d’uomo inebriato di se stesso”. Migjeni la vede da un paese che sta facendo i conti con la propria arretratezza e con le nuove aspirazioni nazionali, sottoposto a mire imperialistiche da parte dell’Italia e da forti tensioni politiche e culturali interne. La vede con le sue lampanti contraddizioni e sa nominarle con una parola non inebetita né dall’avvenirismo delle nuove promesse della tecnica né dal rimpianto del mondo che fu. Solo il precedente di Fan Noli, a Migjeni direttamente noto, primo ministro per breve tempo nel 1924, insigne pensatore e letterato, può dar conto di un’Albania ignota ai più e straordinariamente più aperta e democratica rispetto al greve fascismo italiano che vaneggiava di mire balcaniche. Fan Noli, per rendere l’idea, potrebbe essere indicato, con benevola approssimazione, come un Piero Gobetti albanese, vissuto però ottant’anni, quasi tutti in esilio.
Migjeni al parco Valentino di Torino
I pochi anni di vita di Migjeni non ci permettono di sapere di più. L’opera poetica e le trentacinque prose brevi, secche, immaginifiche, riflessive, stanno tutte in libretto intitolato Verso Libero. Cosa sarebbe potuto maturare se la vita fosse stata più generosa con lui non lo possiamo dire:
Nel profondo del mio cuore dormono canti non cantatiche né pena né gioia hanno ancora sprigionato,
che dormono e attendono giorni più fortunati
per erompere ed effondersi liberi da paure.
Ci sia di consolazione sapere che i suoi ultimi giorni di vita non sono stati una solitaria agonia. La femminile sollecitudine della sorella Olga, l’ambiente di Villa Elisa che l’ha accolta e ospitata, gli amici albanesi di Torino, la Chiesa Valdese che non ha fatto storie sulla sua confessione ortodossa, ci dicono che in questo Paese l’accoglienza degli stranieri non è sempre stata dettata dal fastidio o dalla intolleranza.
Nel dopoguerra, durante il regime comunista-paranoide di Enver Hoxha, Migjeni è stato esaltato come il precursore del realismo socialista per la radicalità del suo rifiuto del mondo “vecchio”. Lettura trionfalistica e propagandistica che oscurava completamente il fondo pessimistico e tragico della poetica di Migjeni, il suo essere soverchiato da una storia pesante [la montagna da prendere a pugni] che non lasciava spazio ad aspettative di redenzione:
Nel mio paesesventolano ovunque
bandiere di una triste
malinconia…
… e nessuno può dire
che qui un popolo vive
che qualcosa di nuovo
sta costruendo.
…
Sulla soglia di ogni casa
dove un segno di vita appare
sventola una bandiera
di triste malinconia.
La seconda storia che raccontano quei necrologi riguarda, come già detto, tutti noi. Sono trascorsi più di settant’anni da quella morte a Torre Pellice, che in Albania è un nome noto. Il nostro sguardo sul mondo si è fatto sempre più attento, però spesso codificato secondo un impulso gerarchico in cui in primo piano ci sono o le vittime o i carnefici, le verificabili somiglianze o le profonde ed esotiche dissomiglianze. La normale diversità di un paese come l’Albania non attrae, al punto che decenni di storia comune sono stati ignorati e cancellati. Quando, ormai vent’anni fa, sono approdati i primi gommoni dall’Adriatico è stato come scoprissimo (noi) l’America. Chi sono questi? Da dove saltano fuori? Che paese è quello? Un paese, unico al mondo, dove l’italiano era – e non è più- lingua quotidiana. Un paese in cui la cultura e la storia italiane erano – e non sono più- moneta corrente, in cui la letteratura moderna era cominciata… in Italia: Milosao di Gerolamo De Rada, scrittore albanese-calabrese-italiano. Un’Italia “multiculturale” molto prima della sbandierata multiculturalità odierna.
Non sono bastati i gommoni. Se Millosh Gjergj Nikollas alias Migjeni si fosse chiamato George o Georg o che ne so, avrebbe ricevuto le dovute attenzioni per il lustro che ci avrebbe portato. Se fosse stato condannato all’esilio o fucilato da un plotone di esecuzione l’avremmo “visto” e compatito ed esaltato. Ma nella sua fine tutto è stato troppo normale, troppo in punta di piedi e l’opportunità di interrogarci sul rapporto di quest’uomo con il suo paese e con il nostro, sulle culture in movimento e in groviglio, sulla storia meno canonica dell’Italia novecentesca, ce la siamo lasciata sfuggire.
Una nota personale spiega bene forse il tono un po’ aspro, ma credo non scorretto, di queste annotazioni finali che dunque possono anche essere confinate nell’ambito delle fissazioni soggettive: nel 2008, a settant’anni dalla morte di Migjeni, ho avuto l’occasione di presentare al tempio valdese di Torre Pellice, una serata di letture e musiche dedicate al poeta. Venuti appositamente da Tirana la nipote del poeta, figlia di Olga, il presidente del parlamento albanese, e rappresentanze diplomatiche e culturali albanesi varie. Perfino troppe, per i mie gusti.
Italiani presenti: tre.
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