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Il Manifesto pubblica mercoledì 23 gennaio 2013 questo mio articolo:
L'Egitto africano e nero come coscienza storica
L’editoria italiana sa essere bizzarra. Pubblica un secondo libro su Cheikh Anta Diop, i cui scritti non sono mai stati tradotti anche se  ne ha pubblicati almeno una dozzina tra il 1954 e il 1986, anno in cui è morto. Ma chi è Cheikh Anta Diop? Ce lo racconta Jean-Marc Ela in L’Africa a testa alta di Cheikh Anta Diop [EMI, Bologna, 2012,  traduzione di Pier Maria Mazzola, prefazione di Marco Aime, pagg. 154, € 12,00; l’originale è del 1989.  L’altro testo su C. Anta Diop è di Pathé Diagne, Cheikh Anta Diop e l’Africa nella storia del mondo, L’Harmattan, Torino,  2002].  Subito viene un’altra inevitabile domanda, Chi è Jean-Marc Ela? Camerunese, sociologo, filosofo, teologo, prete cattolico, di cui, invece, l’editoria italiana per fortuna si è accorta. Ma lascio la parola ad Achille Mbembe, l’autore di Postcoloniality, che con lui collaborò per diverso tempo, e che gli dedicò un lungo e profondo necrologio per la sua morte avvenuta nel 2008 in Canada, dove si era rifugiato dopo l’assassinio in patria del confratello, padre Engelbert Mveng: “Non ascolteremo più la sua voce, di limpida e cristallina purezza, così folgorante nel suo rifiuto di ogni compromesso, così scintillante di chiarezza e portatrice di speranza in mezzo alla notte della nostra epoca, all’aridità dei nostri giorni e alla crudeltà che non cessa di avvolgerci strettamente, come una sorte malvagia…La sua pratica dell’ascesi ha fatto di lui il pensatore africano più radicale dopo Franz Fanon. Ma fu anche profeta di speranza. Il fondamento della sua opera intellettuale e della sua prassi sociale fu la speranza di liberazione di energie nascoste o dimenticate, la speranza di un reale ritorno delle potenze addormentate, il sogno di resurrezione”. 
Jean-Marc Ela
Torniamo a Cheikh Anta Diop. Nato nel 1923 in Senegal è stato uno storico, un linguista, un egittologo e uno specializzato in fisica nucleare. Un militante dell’indipendenza del suo paese e dell’Africa, che ha sempre abilmente intrecciato il piano scientifico con  quello politico. E’ stato ed è una figura fecondamente controversa. E’ sufficiente scandire i titoli di alcuni dei suoi libri  per rendersi conto dei temi spinosi messi a fermentare: Nazioni negre e cultura. Dall’antichità negra egiziana ai problemi dell’Africa nera di oggi [1955],  L’Africa Nera precoloniale. Studio comparato dei sistemi politici e sociali dell’Europa e dell’Africa, dall’Antichità alla formazione degli Stati moderni  [1960], I fondamenti  economici e culturali di uno Stato federale dell’Africa Nera [1960], Anteriorità delle civiltà negre: Mito o verità storica? [1967], Parentela genetica dell’egiziano faraonico e delle lingue negro-africane [1977], Civiltà o Barbarie. Antropologia senza compiacenze [1981].  Non è difficile così riconoscere l’apparecchio intellettuale che Diop viene costruendo e perché sia stato emarginato dalla vita universitaria del suo paese, dopo gli studi in Francia. Diop intende ricomporre uno sguardo africano sull’Africa.  Come scrive Jean-Marc Ela:In un contesto intellettuale in cui l’Africa figura solo a titolo di oggetto nello sforzo di produzione scientifica che si opera senza di essa, il Nero è condannato a scoprirsi nello sguardo dell’Altro”.
Diop ha come obiettivo la riconquista della memoria culturale e storica delle popolazioni africane e lo fa proponendo una ricostruzione dell’unità linguistica africana a partire dall’antica civiltà egizia come matrice. Un Egitto africano e nero, conteso e sottratto al sequestro che ne ha fatto la cultura europea di tutti i tempi. In questa operazione, contrastata e ridicolizzata a più non posso dall’accademia,  anteriore e differente dalla Black Athena di Martin Bernal,  Anta Diop si qualifica come l’anti-Hegel africano che contesta le radici dell’autocoscienza europea: l’Africa non è il passato degli europei, non è la notte della ragione e gli africani i figli di questa notte, umanità bambina da domesticare. Le società africane vengono sottoposte da Diop ad una analisi dinamica, non giocata sul trito binomio dell’antropologia coloniale “tradizione/modernità”. Le mutazioni storiche africane non sono regolate da questo dualismo, per esempio “la maggior parte dei clan e delle tribù hanno conosciuto evoluzioni molto complesse. E’ il caso delle società africane che hanno vissuto sotto la monarchia e che si sono ritribalizzate in gradi differenti durante il periodo della tratta negriera”.  Il suo lavoro di scavo storico fa franare il mito di un’Africa rimasta selvaggia prima della penetrazione europea e questo “ripristino della coscienza storica” non è fine a se stesso, ma si salda con l’obiettivo politico della “rivoluzione africana”.     


La storia  come luogo privilegiato della scoperta dell’identità africana pone Diop sulla linea epistemologica che sarà sviluppata negli anni Ottanta dai Subaltern Studies in India e da certi dibattiti postcoloniali nelle Americhe indigene. Tutti sottoposti all’accusa, teoricamente giustificata, di essenzialismo, di costruzione di fondamenti ontologici dell’identità, di utilizzo della storia per accedere ad una mitica identità originaria, una storia cioè che si mette fuori della storia. Jean-Marc Ela prova a smentire questo versante del pensiero di Anta Diop con esiti che non sempre convincono.  Il posizionamento di Diop è politico, la maggior parte della sua attività si è manifestata durante il periodo più acuto della colonizzazione e delle lotte per l’indipendenza.        La sua è una sociologia politica che interroga le forme evolutive delle società africane, le loro particolari  strutture sociali e politiche, e questa indagine sul loro regime di storicità non è fine a se stessa, vuole costituire invece la premessa ad un programma che aveva come obiettivo uno Stato federale africano. In questo modo Diop fa uso, senza saperlo,  di quella tipologia che Gayatri Spivak ha definito come essenzialismo strategico, cioè la fissazione provvisoria di una identità che si sa essere artificiale, socialmente costruita,  e tuttavia utile all’emergere di una azione collettiva. A contraddire l’immaginario coloniale non poteva essere la negritudine enunciata dal suo compatriota Léopold Sédar Senghor, questa sì identità regressiva, bensì una nuova coscienza storica degli africani. La questione non sta nel “glorificarsi di un passato più o meno grandioso”: si tratta di “scoprire e di prendere coscienza della continuità di questo passato, qualunque esso sia stato”.  Non tutte le identità, le  essenze,  sono uguali ai fini della liberazione.

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 di Jean-Marc Ela è disponibile presso l'editore, Il grido dell'uomo africano. Domande ai cristiani e alle Chiese dell'Africa, L'Harmattan Italia, Torino, 2001. Altre importanti opere sue si possono trovare nelle biblioteche. Il medesimo editore ha anche pubblicato una lunga intervista: Jean-Marc Ela, sociologo e teologo africano con il boubou, a cura di Yao Assogba, 2001;


Engelbert Mveng oltre ad essere un importante teologo è stato anche un apprezzato artista. Qui la Via crucis Africana in una chiesa di Nairobi http://www.flickr.com/photos/millhillmissionaries/sets/72157629871676561/


Di Achille Mbembe è stato tradotto Postcoloniality con il titolo, sbagliato, a mio avviso, di Postcolonialismo, edizioni Meltemi, 2003, che nel frattempo ha chiuso i battenti. Un suo articolo in Aut Aut, 339/2008, Che cos'è il pensiero postcoloniale?       In rete è disponibile l'interessantissima rivista diretta da Mbembe: The Johannesburg salon   http://jwtc.org.za/salon_volume_5.htm

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