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DAI MARGINI
ripubblico un testo uscito nel 2003 e dunque datato nei riferimenti di cronaca, un po' meno nel resto. Spero.

E' sempre più difficile dire qualcosa sul mondo o su di sé. Perché il mondo non sta lì, immobile, ad aspettare me, si muove. Non è più un testo scritto che abbia solo bisogno di interpretazione e di un lingua per raccontarlo. Ma è un testo fluido in cui io sono immerso. Ho un bel cliccare qua e là, il mondo non mi appare come una spazio in cui discernere vero dal falso, ma come scenari variabili in cui  continuamente muta  sì  l'universo delle emittenti, delle cose che mandano segnali in contemporanea, ma anche, e inaspettatamente,  quello delle riceventi, delle nostre teste che sono fuori formato, costruite sull'asse di una scansione sequenziale e critica. I segni si trasmettono in tempo reale con una durata di esposizione inferiore a quella necessaria al cervello sociale per decodeficarli consapevolmente.  C'è una profonda dissimmetria tra il flusso di segnali che arrivano dal "mondo" e la nostra capacità cognitiva di riceverli e organizzarli. Quelli arrivano in diretta o in simulazione, ma istantanei.

La guerra è anche la non guerra, la sinistra è anche destra, l'innocenza è anche colpa, il piacere è anche dolore, e così via. Tutte le opposizioni binarie (vero/falso, reale/irreale, razionale/irrazionale, ecc) che avevano governato il nostro mondo mentale per secoli , si mascherano, si mescolano, si accavallano. Ad una velocità molto più alta della nostra potenza conoscitiva. Ci vuole una grande energia per adattarsi al formato del mondo, a "formattarlo", e spesso quello che risulta dallo sforzo non è altro che dispendio. Vissuto con infelicità dalla mente collettiva che cerca di adeguarsi, che lo patisce come una malattia e una epidemia mentale senza scampo. Da qui gli ingorghi della comunicazione, che generano panico, depressione, sovraccarico, anestesia. Tutte patologie della cognizione sociale che troviamo in cronaca sui quotidiani, nelle forme più diverse e più disperate.
La "guarigione" sembra passare magari attraverso l'immersione totale nelle immagini che dal mondo e sul mondo si producono, considerandole non più come un orientamento, ma come il luogo del desiderio, della vita. La morte di Lady Diana ce l'ha insegnato. Le narrative delle emozioni, come quelle delle merci, non hanno più confini. Piangere a Londra, a Tirana o a Saigon,  la morte di una principessa inglese non è un paradossale frammento di esistenza. Sta dentro alla globalizzazione del desiderio e delle emozioni, che attraversa coscienze e deserti. Costituisce quella forza onirica che rende mistiche le nostre società. Che guida i gommoni attraverso i mari e organizza le aspettative di miliardi di esseri umani, in doppiopetto blu o scalzi, fa lo stesso. 
Quella che sembrava una mera esibizione di immagini, di figure in circolazione da uno schermo all'altro, non è la rappresentazione del mondo, ma è la sua produzione. Le immagini non sono la pittura del mondo da cui, a piacere, distogliere lo sguardo, ma sono il mondo a disposizione, quello abitabile. Le immagini generano il mondo, lo pongono in essere. E in questa costituzione molto "reale" determinano le attese, diffondono paure e psicosi, stimolano stati euforici, che poi ricadono nella legge della domanda e dell'offerta. Non c'è bisogno di essere esperti di finanza internazionale per cogliere il carattere, ancora una volta, mistico e visionario dell'andamento dei listini di borsa, delle crisi monetarie ed economiche, e degli inevitabili "aggiustamenti" economici, politici e sociali, che organismi internazionali, governi, banche, partiti, media, vanno proponendo e praticando. L'universo dei segni, che ad una lettura superficiale, viene dato come immateriale, pura astrazione mentale, delirio di figure, si converte sempre in una consistenza dura, opaca, materialissima, contro cui le vite vanno a sbattere. Siano esse quelle del bambino thailandese alla tomaia per 10 ore al giorno o il giovane e la giovane europei in eterno esubero sul lavoro disponibile e accessori insignificanti nello spazio della democrazia. Perfino se sei il presidente degli Stati Uniti ti può succedere che la fedeltà al dogma maschile  "lo sperma è mio e me lo gestisco io" venga frullata nell'universo telematico e ti si sfracelli addosso, rendendo dovunque bizzarra qualsiasi etica dei corpi. 
Con un ordine della realtà così fluido, instabile, inattendibile, è facile cercare un'altra via di "guarigione". Quella dell'io o dell'origine.
Il sogno che vorrebbe ricostituire il sé primordiale e fondativo attraverso un risanamento e una unificazione finalmente pacificatori. Un porto sicuro in cui sostare per riprendere fiato: La realtà "vera" e tranquillizzante a confronto con quella "di fuori", volubile e inquietante. Un grande armamentario di normative e guardiani dell'io   viene messo a disposizione per cercare un appiglio "in sé stessi".    
Regolamentazioni dietetiche e igienistiche, ascetiche psico-fisiche, cosmetiche dell'anima, terapie spirituali, panacee sessuali, catechismi mentali,  per tutti i gusti, per tutte le borse. Liturgie e officianti che definiscono rituali, comportamenti, volontà, aspettative. Come se l'io fosse un buco da riempire, uno spazio da restaurare, al cui fondo stìa l'io vero, l'origine unica e indefettibile, la sostanza spirituale, la stanza di regìa  che, una volta ritrovata, garantirebbe la conoscenza del mondo e l'orientamento in esso.
Ma il difetto di tutte queste tavole della legge che il mercato della benevolenza e della cura offre, sta nel manico. Esigono proprio quello che vorrebbero sanare,  un io mobile, in grado di mettersi alla prova, di scegliere, di trasmigrare e di convertirsi in continuazione. Una volta messo in mobilità l'io si rivela per quello che è, una macchina rischiosa e tutt'altro che rappacificante. Come diceva Paul Valery: "Bisogna entrare in se stessi armatissimi fino ai denti". Il mito dell'interiorità scricchiola e non dà quello che promette. L'io si scopre plurale e anch'esso fluido, come il mondo. La decisione, la libertà a cui sei invogliato, producono di notte i loro detriti, che si chiamano sradicamento. E' la faccia oscura della santità dell'individuo proclamata dall'Occidente. Ma non tutti reagiscono allo stesso modo alla contingenza fantasmatica e alla variabilità del mondo. C'è chi vi naviga dentro e attraverso, ma c'è chi pensa di "guarirne" costituendo una nicchia di appartenenza, decantando i legami forti, (re)inventando tradizioni. L'orgia di "identità" che infesta accademie e paesotti, affabulatori e popoli, assessori e portinai, teologi e correttori di bozze, è la risposta terribile allo scarto tra mondo e sua immaginazione.  Lo sradicamento, l'onnipotente virtualità dell'immagine del mondo, producono domanda di protezione dall'altro, dall'estraneo variamente definito e occasionalmente inventato, con tutto il seguito di ostilità che conosciamo. 
Non ho la minima idea di come sia possibile non stazionare in questa partita doppia che vede, da una parte, solo assorbimento nel misticismo dell'esistente, con le sue dogmatiche e i suoi cerimoniali, e, dall'altra, il rifugio posticcio nel patrocinio di identità originarie e un po' mitiche. Quello che mi pare prospettabile è la presa d'atto che comunque stiamo sulla frontiera, e quelle non riconosciute sono proprio quelle più agitate. Stiamo su frontiere che  attraversano sia le nostre costituzioni  spirituali sia le nostre collocazioni sociali. Tutti viviamo ai bordi dell'esclusione, ma facciamo fatica a pensare partendo dalla frontiera e dal margine. Pensando il margine. Non ci piace l'dea di essere marrani, cioè definiti dagli altri e contro i nostri rituali privati. Forse solo l'ubiquità mentale, che riconosce la precarietà del confine, può costruire delle soggettività nomadi, ma non randage. C'è un mondo oscuro e aggressivo del nostro nobile universalismo, che va raccontato, prima di tutto a noi stessi. La fedeltà a questa contraddizione è il primo passo per un pensiero non uniforme.

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